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Amor proprio e amor di sé nei moralisti della prima modernità Dr. A. Frigo

Amor proprio e amor di sé nei moralisti della prima modernità Dr. A. Frigo Pisa, 17-21 marzo 2013. Per quante scoperte siano fatte nel paese dell’amor proprio, vi restano ancora molte terre sconosciute. La Rochefoucauld, Massime , § 3.

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Amor proprio e amor di sé nei moralisti della prima modernità Dr. A. Frigo

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Presentation Transcript


  1. Amor proprio e amor di sé nei moralisti della prima modernità Dr. A. Frigo Pisa, 17-21 marzo 2013

  2. Per quante scoperte siano fatte nel paese dell’amor proprio, vi restano ancora molte terre sconosciute. La Rochefoucauld, Massime, § 3

  3. Che impressione ne riceverebbe anche La Rochefoucauld, Labruyère e Vauvenargues se nell’Ade capitasse loro di leggere il Suo libro? E cosa ne direbbe il vecchio Montaigne? Frattanto conosco un paio di Suoi motti che La Rochefoucauld, per esempio, potrebbe davvero invidiarle. J. Burckhardt a Nietzsche, 5 aprile 1879

  4. La nostra lingua ha l’ottima abitudine di distinguere l’amor proprio (amour propre) dall’amore di noi stessi (amour de nous-mêmes). L’amore di noi stessi è l’amore in quanto legittimo e naturale. L’amor proprio è l’amore in quanto viziato e corrotto. J. Abbadie, L’art de se connaitre soi-même ou la recherche des sources de la morale, 1692 Saint François de Sales mi diceva spesso che è dalla confusione di queste due espressioni, amour propre e amour notre, che nascono infiniti disordini nei pensieri e nelle azioni umane. J.P. Camus, L’Esprit du bienheureux François de Sales, 1639-41

  5. Ognuno ha caro se stesso più del prossimo suo Euripide, Medea, 86 La gran parte degli uomini ha nella sua anima fin dalla nascita il peggiore dei vizi [...]. E con ciò intendo riferirmi al principio - peraltro è del tutto logico che così debba essere - secondo cui ogni uomo è portato per natura ad amare se stesso. Di fatto, però, causa di tutti i vizi per ognuno di noi è il più delle volte una forma eccessiva di questo amore di sé, perché se è vero che l'amante ama ciecamente l'oggetto amato, è anche vero che per questo egli non valuta in maniera esatta il giusto, il bene e il male. Platone, Leggi, 731 D-E

  6. C’è, poi, un’altra questione: si deve amare soprattutto se stessi o un’altra persona? Infatti, coloro che amano soprattutto se stessi sono biasimati e sono chiamati, in senso dispregiativo, egoisti, e si ritiene comunemente che l’uomo malvagio faccia tutto nell’interesse di se stesso, e tanto più quanto più è perverso. L’uomo virtuoso, invece, agisce per la bellezza morale, e tanto più per la bellezza quanto più è virtuoso, e a favore dell’amico, trascurando il proprio interesse. Aristotele, Etica nicomachea, IX, 8

  7. L’uomo buono deve dunque amare se stesso (infatti, se compirà buone azioni, trarrà vantaggio lui stesso e gioverà agli altri); ma non deve farlo il malvagio, giacché danneggerà se stesso ed il prossimo, perché segue passioni cattive. […] Ed è vero che l’uomo virtuoso compie molte azioni in favore dei suoi amici e della patria, ed è anche disposto a morire per loro […]. Preferirà, infatti, un breve momento d’intensa gioia ad una lungo periodo di soddisfazione tranquilla, un anno di vita esaltante a innumerevoli di un’esistenza meschina, e vorrà compiere una sola grande e bella azione piuttosto che molti gesti da nulla. Senza dubbio è questo risultato che ottengono coloro che sacrificano la propria vita: ciò che scelgono per sé è qualcosa di grande e di bello. Aristotele, Etica nicomachea, IX, 8

  8. Nessuno odia la propria carne. Paolo, Lettera agli Efesini, V, 29 Amerai il prossimo tuo come te stesso. Levitico, IX, 18 e Matteo, XXII, 37-40 Or sappi questo: negli ultimi giorni verranno tempi difficili; perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, irreligiosi, insensibili, sleali, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene, traditori, sconsiderati, orgogliosi, amanti del piacere anziché di Dio, aventi l'apparenza della pietà, mentre ne hanno rinnegato la potenza. Paolo, Seconda lettera a Timoteo, III, 2

  9. Quattro dunque sono le cose che dobbiamo amare: una è sopra di noi, un'altra siamo noi stessi, una terza ci è assai vicina, una quarta è inferiore a noi. Riguardo alla seconda e alla quarta non occorreva che ci venisse dato alcun precetto, poiché l'uomo, per quanto devii dalla verità conserva sempre l'amore per se stesso e per il suo corpo. In conclusione, non c'è bisogno di leggi perché ciascuno ami se stesso o il suo corpo, cioè quello che siamo noi e quello che è al di sotto di noi ma fa parte di noi. Ciò amiamo per una basilare legge di natura che è stata partecipata anche agli animali, i quali di fatto amano se stessi e il loro corpo. Per questo motivo non restava altro se non che ci venissero impartiti precetti concernenti ciò che è al di sopra di noi o accanto a noi. Dice: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso. In questi due precetti si compendia tutta la Legge e i Profeti. Agostino, Della dottrina cristiana, I, 23, 22; 26, 27

  10. Due amori dunque diedero origine a due città, alla terrena l'amor di sé fino all'indifferenza per Iddio, alla celeste l'amore a Dio fino all'indifferenza per sé. Inoltre quella si gloria in sé, questa nel Signore. Agostino, La città di Dio, XIV, 1; 28 È dunque per concupiscenza o per carità; non che non si debba amare la creatura, ma se questo amore viene riferito al Creatore, non sarà più concupiscenza, ma carità. […] Tu devi compiacerti di te stesso, non in te stesso bensì in Colui che ti ha creato. Agostino, La trinità, IX, 8, 13

  11. L’unica sorgente dell’amore, che sgorga dentro di noi, alimenta due ruscelli: uno è l’amore del mondo, ossia la concupiscenza, l’altro è l’amore di Dio, ossia la carità. Pseudo-Agostino [Ugo da San Vittore], La natura dell’amore È impossibile che chi si ama non odi Dio e, parimenti, che chi ama Dio non odi se stesso. L’uno vede in se stesso il fine ultimo di tutti i suoi desideri, l’altro invece cerca solo Dio: in effetti si preoccupa di se e si ama solo in vista di Dio, ossia essendo pronto a rinunciare all’amore e alla cura di sé per Dio, e anche a immolarsi per lui. Giansenio, Augustinus (1640)

  12. Nell’anno di Cristo 1571, all’età di 38 anni, la vigilia delle calende di marzo, nell’anniversario della sua nascita, Michel de Montaigne, già da lungo tempo stanco della schiavitù della corte e delle cariche pubbliche, ancora in buona salute si ritirò nel seno delle dotte Vergini, dove in calma e sicurezza trascorrerà i giorni che gli restano da vivere; sperando che il destino gli conceda di portare a compimento quest’abitazione e questo dolce rifugio avito, l’ha consacrato alla sua libertà, alla sua tranquillità e al suo ozio. Iscrizione del cabinet di Montaigne

  13. Recentemente, quando mi sono ritirato a casa mia, risoluto per quanto lo potessi a non occuparmi d'altro che di trascorrere in pace e appartato quel po' di vita che mi resta, mi sembrava di non poter fare al mio spirito favore più grande che lasciarlo, nell'ozio più completo, conversare con se stesso e fermarsi e riposarsi in se medesimo: cosa che speravo potesse ormai fare più facilmente, divenuto col tempo più posato e più maturo. Montaigne, Essais, I, 8

  14. Questo, lettore, è un libro sincero. Ti avverte fin dall'inizio che non mi sono proposto, con esso, alcun fine, se non domestico e privato. Non ho tenuto in alcuna considerazione né il tuo vantaggio né la mia gloria. Le mie forze non sono sufficienti per un tale proposito. L'ho dedicato alla privata utilità dei miei parenti e amici: affinché dopo avermi perduto (come toccherà loro ben presto) possano ritrovarvi alcuni tratti delle mie qualità e dei miei umori, e con questo mezzo nutrano più intera e viva la conoscenza che hanno avuto di me. Se lo avessi scritto per procacciarmi il favore della gente, mi sarei adornato meglio e mi presenterei con atteggiamento studiato. Voglio che mi si veda qui nel mio modo d'essere semplice, naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno qui i miei difetti presi sul vivo e la mia immagine naturale, per quanto me l'ha permesso il rispetto pubblico. Ché se mi fossi trovato tra quei popoli che si dice vivano ancora nella dolce libertà delle primitive leggi della natura, ti assicuro che ben volentieri mi sarei qui dipinto per intero, e tutto nudo. Così, lettore, sono io stesso la materia del mio libro: non c'è ragione che tu spenda il tuo tempo su un argomento tanto frivolo e vano. Addio dunque; da Montaigne, il primo di marzo millecinquecentottanta

  15. Mi si dirà che questo proposito di servirsi di sé come soggetto nello scrivere sarebbe giustificabile in uomini rari e famosi i quali, per la loro fama, avessero fatto sorgere qualche desiderio di conoscerli […] A nessun altro si addice farsi conoscere, tranne a colui che ha di che farsi imitare, e la vita e le opinioni del quale possono servire di modello. L'uso ha fatto un vizio del parlar di se stessi, e lo proibisce ostinatamente per odio della vanteria che sembra sempre esser congiunta alle testimonianze personali. Montaigne, Essais, II, 18; II, 6

  16. Non sto innalzando qui una statua da erigere al crocicchio d’una città, o in una chiesa o su una pubblica piazza […]. È per l’angolo d’una biblioteca, e per intrattenere un vicino, un parente, un amico, che avrà piacere di riavvicinarsi a me e frequentarmi di nuovo in quest'immagine. Gli altri hanno trovato il coraggio di parlare di sé perché hanno trovato il soggetto degno e ricco; io al contrario, perché l’ho trovato tanto sterile e magro che non vi può cadere sospetto di ostentazione. Montaigne, Essais, II, 18

  17. Di fatto, non osar parlare chiaramente di sé è segno d'una certa mancanza di coraggio. Un giudizio severo e altero, e che giudica in modo sano e sicuro, usa a piene mani dei propri esempi come di cosa estranea, e testimonia francamente di se stesso come di un terzo. Bisogna passar sopra a queste regole comuni di civiltà a favore della verità e della libertà. Io oso non soltanto parlare di me, ma parlare soltanto di me ; vado fuori strada quando scrivo d'altro, e mi allontano dal mio soggetto. Non mi amo così smodatamente e non sono così attaccato e legato a me stesso da non poter distinguermi e considerarmi a parte, come un vicino, come un albero. È sbagliare allo stesso modo non vedere fino a che punto si vale, come dire più di quello che si vede. Montaigne, Essais, III, 8

  18. Gli altri formano l'uomo; io lo descrivo, e ne presento un esemplare assai mal formato, e tale che se dovessi modellarlo di nuovo lo farei in verità molto diverso da quello che è. Ma ormai è fatto. Ora, i segni della mia pittura sono sempre fedeli, benché cambino e varino. Il mondo non è che una continua altalena. Tutte le cose vi oscillano senza posa: la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d'Egitto, e per il movimento generale e per il loro proprio. La stessa costanza non è altro che un movimento più debole. Io non posso fissare il mio oggetto. Esso procede incerto e vacillante, per una naturale ebbrezza. Io lo prendo in questo punto, com'è, nell'istante in cui m'interesso a lui. Non descrivo l'essere. Descrivo il passaggio: non un passaggio da un'età all'altra o, come dice il popolo, di sette in sette anni, ma di giorno in giorno, di minuto in minuto. Bisogna che adatti la descrizione al momento. Potrei cambiare da un momento all'altro, non solo per caso, ma anche per intenzione. È una registrazione di diversi e mutevoli eventi e di idee incerte e talvolta contrarie: sia che io stesso sia diverso, sia che io colga gli oggetti secondo altri aspetti e considerazioni. Tant'è che forse mi contraddico, ma la verità non la contraddico mai. Montaigne, Essais, III, 2

  19. Ritengo che sia necessario esser prudente nel giudicare di sé, e parimenti coscienzioso nel testimoniarne, sia in male sia in bene, indifferentemente. Se mi sembrasse di essere buono e saggio o quasi, lo canterei a voce spiegata. Dire di sé meno di quel che si è, è stoltezza, non modestia. Valutarsi meno di quel che si vale, è vigliaccheria e pusillanimità, secondo Aristotele. Nessuna virtù si giova della falsità; e la verità non è mai materia di errore. Dire di sé più di quello che si è, non è sempre presunzione, spesso anche questo è stoltezza. Compiacersi oltre misura di ciò che si è, cadere in uno smodato amore di sé, è, secondo me, la sostanza di questo vizio. Il supremo rimedio per guarirne è fare tutto il contrario di quello che ordinano di fare costoro che, proibendo di parlare di sé, proibiscono di conseguenza ancora di più di pensare a sé. L'orgoglio risiede nel pensiero. La lingua non vi può avere che una parte molto lieve. Occuparsi di sé, sembra loro che sia compiacersi di sé ; frequentare e praticare se stessi, amarsi troppo. Forse. Ma questo eccesso nasce solo in coloro che non si saggiano se non superficialmente ; che vediamo attendere ai loro affari, che chiamano fantasticheria e ozio occuparsi di sé, e fare castelli in aria coltivarsi e costruirsi : ritenendosi un altro, estraneo a se stessi. Montaigne, Essais, II, 6

  20. Per raddrizzare un legno curvo lo si curva all'incontrario. Io ritengo che nel tempio di Pallade, come vediamo in tutte le altre religioni, vi fossero dei misteri comprensibili da rivelare al popolo, e altri misteri più segreti e più alti da rivelare soltanto a quelli che vi fossero iniziati. È verosimile che in questi ultimi si trovi il vero grado dell'affetto che ognuno deve a se stesso. Non un affetto falso che ci fa abbracciare la gloria, la scienza, la ricchezza e cose simili con un amore dominante e smodato, come membra della nostra persona, né un affetto sviscerato e indiscreto nel quale accade ciò che si vede dell'edera, che corrompe e rovina la parete a cui si attacca ; ma un affetto salutare e moderato, utile quanto piacevole. Chi ne conosce i doveri e li adempie, fa parte davvero del tabernacolo delle Muse; ha raggiunto il culmine della saggezza umana e della nostra felicità. Costui, sapendo esattamente ciò che deve a se stesso, trova che rientra nella sua parte il dover trarre vantaggio dagli altri uomini e dal mondo e, per far ciò, tributare alla società i doveri e gli uffici che gli appartengono. Chi non vive in qualche modo per gli altri, non vive in alcun modo per sé. Montaigne, Essais, III, 10

  21. Nessuna particolare qualità farà inorgoglire colui che terrà conto al tempo stesso di tante altre qualità imperfette e fiacche che sono in lui, e infine della nullità dell'umana condizione. Per avere, lui solo, compreso veramente il precetto del suo dio, di conoscere se stesso, e per essere arrivato a disprezzarsi attraverso quello studio, Socrate solo fu stimato degno del nome di saggio. Chi si conoscerà così, si faccia arditamente conoscere per bocca propria. Montaigne, Essais, II, 6

  22. Che cos'è l'io? Un uomo che si mette alla finestra per vedere i passanti, se io passo di là, posso dire che si è messo là per vedere me? No, perché egli non pensa a me in particolare; ma colui che ama qualcuno a causa della sua bellezza, lo ama? No, perché il vaiolo, che ucciderà la bellezza senza uccidere la persona, non gliela farà più amare. Ma se mi amano per la mia intelligenza, per la mia memoria, amano davvero me? No, perché posso perdere queste qualità senza perdere me stesso. Dov'è dunque questo io, se non si trova nel corpo e neppure nell'anima? E come amare il corpo o l'anima, se non per queste qualità, che non sono ciò di cui è fatto l'io, dal momento che sono caduche? Si può amare la sostanza dell'anima di una persona in modo astratto, indipendentemente dalle sue qualità? Non è possibile e non sarebbe giusto. Non amiamo dunque mai nessuno, ma solo le sue qualità. Non prendiamoci più gioco dunque di quelli che si fanno onorare a causa di cariche e di uffici, perché non si ama nessuno se non per qualità prese a prestito. Pascal, Pensées, Lafuma 688

  23. È falso che noi siamo degni di essere amati dagli altri, è ingiusto volerlo. Se nascessimo ragionevoli e indifferenti, e conoscendo noi stessi e gli altri, non daremmo affatto questa inclinazione alla nostra volontà. Tuttavia, noi nasciamo con essa; nasciamo dunque ingiusti, perché ogni cosa tende a sé. Questo è contro ogni ordine; occorre tendere a quanto è generale; e la spinta verso di sé è il principio di ogni disordine, in guerra, in politica, in economia, nel corpo particolare dell’uomo. La volontà è dunque pervertita. Pascal, Pensées, Laf. 421

  24. Chi non odia l'amor proprio in sé e l'istinto che lo porta a farsi Dio, è ben cieco. Chi non si accorge che non c'è niente di più opposto alla giustizia e alla verità? Perché è falso che noi meritassimo ciò, ed è ingiusto e impossibile arrivarvi, poiché tutti vogliono la stessa cosa. Quella in cui siamo nati è dunque una palese ingiustizia di cui non possiamo ma dobbiamo liberarci. Pascal, Pensées, Laf. 617

  25. La natura dell'amor proprio e dell'io umano consiste nell'amare solo sé e nel considerare solo sé. Ma cosa potrà fare? Non saprebbe impedire che l'oggetto che ama sia pieno di difetti e di miseria; vuole essere grande e si vede piccolo; vuole essere felice e si vede miserabile; vuole essere perfetto e si vede pieno d'imperfezioni; vuole essere l'oggetto dell'amore e della stima degli uomini e vede che i suoi difetti gli procurano solo la loro avversione e il loro disprezzo. La confusione in cui si trova produce in lui la più ingiusta e la più criminale passione che sia possibile immaginare; perché concepisce un odio mortale contro questa verità che lo ammonisce e lo convince dei suoi difetti. Desidererebbe annientarla ma, non potendo distruggerla in se stessa, per quanto gli è possibile, la distrugge nella propria conoscenza e in quella degli altri; ciò vuol dire che mette ogni cura nel nascondere i propri difetti agli altri e a se stesso, e che non sopporta che glieli si facciano vedere né che li si veda. Pascal, Pensées, Laf. 978

  26. È certo un male essere pieno di difetti; ma è un male ancora più grande esserne pieno e non volerli riconoscere, perché significa aggiungervi anche quello di un'illusione volontaria. Noi non vogliamo che gli altri ci ingannino: non troviamo giusto che essi vogliano essere stimati da noi più di quanto non meritino: dunque non è neppure giusto che noi li inganniamo e che vogliamo che ci stimino più di quanto meritiamo. Così, quando essi scoprono solo quelle imperfezioni e quei vizi che effettivamente abbiamo, è evidente che non ci fanno torto, perché non ne sono essi la causa, e anzi ci fanno del bene, perché ci aiutano a liberarci da un male, che è l'ignoranza di queste imperfezioni. Non dobbiamo arrabbiarci perché le conoscono e ci disprezzano, essendo giusto e che ci conoscano per quello che siamo, e che ci disprezzino se siamo spregevoli. Ecco i sentimenti che nascerebbero da un cuore che fosse pieno di equità e di giustizia. Cosa dire dunque del nostro, vedendovi una disposizione assolutamente contraria? Non è forse vero che noi odiamo la verità e quelli che ce la dicono, e preferiamo che si ingannino a nostro favore, e vogliamo essere considerati da loro diversi da quello che siamo? Pascal, Pensées, Laf. 978

  27. Ci sono gradi diversi in questa avversione per la verità; ma si può dire che essa si trova in tutti in qualche misura, perché inseparabile dall'amor proprio. Da questo deriva che, se qualcuno ha qualche interesse ad essere amato da noi, si guarda dal renderci un servizio che sa esserci sgradevole; ci tratta come vogliamo essere trattati: noi odiamo la verità, ce la nasconde; vogliamo essere adulati,ci adula; ci piace essere ingannati, ci inganna. Così la vita umana non è che una perpetua illusione; non si fa altro che ingannarsi e adularsi. Nessuno parla di noi in nostra presenza come fa quando siamo assenti. I legami tra gli uomini si fondano esclusivamente su questo mutuo inganno; e ben poche amicizie resisterebbero se ciascuno sapesse ciò che l'amico dice di lui quando non c'è, benché ne parli allora sinceramente e senza passione. L'uomo dunque non è che maschera, menzogna e ipocrisia, per se stesso e riguardo agli altri. Non vuole che gli si dica la verità. Evita di dirla agli altri; e tutte queste inclinazioni, così lontane dal giusto e dalla ragione, hanno una radice naturale nel suo cuore Pascal, Pensées, Laf. 978

  28. La più grande bassezza dell'uomo consiste nella ricerca della gloria, ma questo è anche il più grande segno della sua superiorità, perché per quanto possegga su questa terra, per quanto sia sano e per quanti vantaggi disponga, se gli uomini non lo stimano non è soddisfatto. A tal punto considera la ragione umana che qualunque posto occupi al mondo, se non occupa un buon posto anche nella ragione umana, non è contento. È il più bel posto del mondo, niente lo può distogliere da questo desiderio ed è la caratteristica meno cancellabile dal cuore umano. Pascal, Pensées, Laf. 470

  29. ARTICOLO LXXIX Le definizioni dell’Amore e dell’Odio L’Amore è un’emozione dell’anima, causata dal movimento degli spiriti, che la induce a congiungersi con la volontà agli oggetti che le appaiono consoni. E l’Odio è un’emozione, causata dagli spiriti, che induce l’anima a voler essere separata dagli oggetti che si presentano ad essa come nocivi. Dico che queste emozioni sono causate dagli spiriti per distinguere l’Amore e l’Odio, che sono passioni e dipendono dal corpo, sia dai giudizi che portano l’anima a congiungersi con la volontà con le cose che stima buone e a separarsi da quelle che stima cattive, sia dalle emozioni che questi giudizi da soli suscitano nell’anima. ARTICOLO LXXX Che cosa significa unirsi o separarsi con la volontà Del resto con l’espressione di volontà non intendo qui parlare del desiderio, che è una passione a sé e riguarda il futuro, ma dell’assenso che ci fa considerare già nel presente come congiunti a ciò che amiamo: si immagina così un tutto di cui si pensa di essere solo una parte, mentre la cosa amata ne è l’altra. Al contrario, nell’Odio ci si considera da soli come un tutto, completamente separati dalla cosa per la quale si prova avversione. Descartes, Passioni dell’anima

  30. Per dare un regola all'amore di sé, dobbiamo immaginare un corpo pieno di membra pensanti, perché noi siamo membra del tutto, e vedere come ogni membro dovrebbe amarsi, ecc. Essere membro significa avere vita, essere e movimento solo dallo spirito del corpo e per il corpo. Il membro separato, non vedendo più il corpo al quale appartiene, ha un solo essere in declino e morente. Tuttavia crede di essere un tutto e, non vedendo più il corpo da cui dipende, pensa di dipendere solo da sé e vuole farsi centro e corpo egli stesso. Ma non avendo in sé il principio vitale, non fa che errare e si stupisce nell'incertezza del suo essere, accorgendosi bene che non è corpo, ma al tempo stesso non vedendo che è membro di un corpo. Alla fine, quando si riconosce per quello che è, è come se ritornasse in sé e si ama solo in vista del corpo. Deplora i suoi errori passati. Per sua natura non potrebbe amare altra cosa se non per sé e per legarla a sé, perché ogni cosa ama se stessa più del tutto. Ma amando il corpo, ama se stesso, perché il suo essere dipende da quello, per mezzo suo e come suo scopo. Il corpo ama la mano, e la mano, se avesse una volontà, dovrebbe amarsi allo stesso modo in cui l'ama l'anima. Ogni amore che si spinge oltre è ingiusto. Pascal, Pensées, Laf. 368; 372

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