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“ La filosofia di G. Bruno per fare gli italiani ” campodeifioriurbani. wordpress

 Questo corso di preparazione al Certamen bruniano 2010 prende avvio e nome da una piazza – Campo de’Fiori a Roma – e da una storia che la riguarda: una storia capace di coinvolgerci ancora oggi, proprio perché richiama l’identità di una nazione, l’Italia, nata appena 150 anni fa.

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Presentation Transcript


  1.  Questo corso di preparazione al Certamen bruniano 2010 prende avvio e nome da una piazza – Campo de’Fiori a Roma – e da una storia che la riguarda: una storia capace di coinvolgerci ancora oggi, proprio perché richiama l’identità di una nazione, l’Italia, nata appena 150 anni fa. “La filosofia di G. Bruno per fare gli italiani”campodeifioriurbani.wordpress.com

  2. È la storia della statua eretta a Giordano Bruno, a Campo de’ Fiori, dove fu arso vivo dalla santa inquisizione il maggior filosofo del rinascimento europeo, “apostata di Nola da Regno, eretico impenitente”. Una statua fu eretta una prima volta durante la repubblica romana del 1849 e fu distrutta durante la restaurazione, una volta tornato sul soglio pontificio papa Pio IX. Dopo l’unità d’Italia e in particolare a seguito della conquista di Roma avvenuta il 20 settembre 1870, si creò un clima di forte attrito fra la Chiesa e lo Stato italiano. Pio IX non accettò la Legge delle Guarentigie (1871) in cui si riconoscevano al papa onori sovrani, la facoltà di disporre di forze armate, l’extra-territorialità dei palazzi del Vaticano, del Laterano e di Castel Gandolfo, una dotazione annua di oltre tre milioni di lire, nonché la piena autonomia della Chiesa, nel rispetto della sua separazione dallo Stato. Il pontefice per tutta risposta scomunicò i Savoia e nel 1874 emanò la bolla “Non expedit“, in cui invitava i cattolici a non partecipare alla vita politica dello Stato.

  3. Torniamo indietro, anzi andiamo avanti e arriviamo a quegli anni, a quando, in Italia, era in carica il governo Crispi. Roma aveva un sindaco clericale, Leopoldo Torlonia, proveniente dalla nobiltà nera (quella vaticana). Nel 1885 fu formato un comitato per la costruzione del monumento a Giordano Bruno, cui aderirono le maggiori personalità dell’epoca: Victor Hugo, Michail Bakunin, George Ibsen, Giovanni Bovio, Herbert Spencer e molti altri. Nel 1888 gli studenti universitari romani, tra i maggiori animatori del comitato, fecero numerose manifestazioni per erigere il monumento, spesso con scontri, arresti e feriti. Il Comune, ai cui vertici, nonostante il “non expedit”, andavano affermandosi amministratori clerico-moderati, senza opporsi apertamente al progetto, cercava di ostacolarlo tramite strategie burocratiche.

  4. Crispi, nel 1887, suggerì al comitato promotore, che chiedeva il suo appoggio, di procedere alla fusione del bronzo senza preoccuparsi degli indugi del Comune. Il dibattito continuò a svolgersi in un clima arroventato dalle manifestazioni studentesche e popolari che a volte provocavano scontri tra “bruniani” e “anti-bruniani“, che si concludevano con arresti e feriti. Alla fine dello stesso anno il re, su proposta del consiglio dei ministri, firmò un decreto con il quale, Leopoldo Torlonia, sindaco di Roma “fu destituito su due piedi da Crispi per aver mandato a Leone XIII gli auguri del Consiglio comunale per il nuovo anno” (cfr. A. Foa, Giordano Bruno, p. 12) … Cosa era successo?

  5. Erigere a Bruno un monumento nella piazza che aveva visto tre secoli prima il suo rogo, a poche centinaia di metri dai palazzi del Vaticano, aveva un significato decisamente politico: quello di sottolineare lo scontro tra lo Stato liberale e la Chiesa, e di caratterizzare in senso decisamente anticlericale il governo crispino, dopo il fallimento delle trattative con il Vaticano che per un breve periodo avevano spinto il Presidente del Consiglio ad attenuare i toni più accesi delle polemiche liberali contro la Chiesa. Ma gli anticlericali non erano gli unici a scegliere il monumento al filosofo nolano come terreno dello scontro tra il pensiero moderno e la religione. Altrettanto enfatica e drammatizzante era stata, fin dalle prime avvisaglie del progetto, la reazione della Chiesa.

  6. Il primo a scendere in campo fu, nel 1886, monsignor Pietro Balan, in uno scritto commissionato dall’Opera dei Congressi e dai Comitati cattolici, in cui si condannava senza appello la filosofia di Bruno e si denunciava la propaganda bruniana come opera di «stranieri, ebrei, ateisti, massoni». L’organo dei gesuiti, «Civiltà cattolica», aveva poi preso in mano la campagna antibruniana con toni ancora più estremi, minacciando addirittura la punizione celeste per il gesto sacrilego: «dal giorno in cui s’è posto mano al suo monumento — scriveva nel momento dell’inaugurazione — i disastri di ogni maniera, come inondazioni, frane, uragani e simili hanno portato la desolazione nelle campagne di parecchieprovince». Per il giornale gesuita, il monumento rappresentava «la presa di possesso a nome dell’ateismo di quella Roma che da quattordici secoli è stata ed è la capitale del mondo cristiano», il compimento dell’opera iniziata con la caduta del potere temporale, il 20 settembre del 1870. Il papa, che aveva minacciato di abbandonare Roma, ove il monumento vi fosse stato scoperto, mentre «l’idra rivoluzionaria debaccava per le vie della sua Roma»… «il Papa digiuna» …trascorse la giornata del 9 giugno digiuno e prostrato ai piedi della statua di S. Pietro.

  7. I cardinali si riunirono in un concistoro segretissimo, da cui uscì l’allocuzione pronunciata il 30giugno da Leone XIII, in cui il papa protestava veementemente contro «l’oltraggio» e denunciava nel gesto il simbolo di «una lotta ad oltranza contro la religione cattolica». «La sicurezza stessa della nostra Persona è in pericolo», affermava il pontefice, appellandosi al mondo cattolico contro quella che si denunciava come una violazione delle Leggi delle Guarentigie dei 1870, in un appello alla solidarietà internazionale che era in realtà uno dei principali obiettivi della campagna cattolica contro il monumento ma che trovò assai scarsa risposta, nei governi europei. Per Leone XIII, ancor più decisamente forse di quanto non lo fosse stato per Clemente VIII e Bellarmino, Bruno era «doppiamente apostata, convinto eretico, ribelle fino alla morte all’autorità della Chiesa». Nell’allocuzione, a Bruno veniva negata la scienza («non possedeva un sapere scientifico rilevante»), la virtù (lo si accusava di «stravaganze di debolezza e corruzione»), e ogni rilevanza nella storia. In Bruno, la Chiesa vedeva il simbolo di una modernità aborrita e combattuta. L’Osservatore Romano:“...è un’orgia satanica!” >>>

  8. Le due immagini, quella della Chiesa e quella del pensiero massone ed anticlericale, non differivano sostanzialmente se non nel segno. Per la «Civiltà cattolica», alfiere dell’attacco contro il mondo moderno, l’inaugurazione del monumento segnava un’era nuova, iniziata da una nuova Chiesa in fieri. Era il trionfo dei «rabbi della Sinagoga, gli archimandriti della Massoneria e i capiparte del liberalismo demagogico»”. La piazza di Campo de’ Fiori doveva ormai chiamarsi «Campo Maledetto», nell’auspicio che l’infame monumento fosse destinato a durare poco e che in suo posto sorgesse nella piazza «una cappella di espiazione al Cuore Santissimo di Gesù». Nel 1887 la massoneria, a cui appartenevano in posizione di rilievo tutti o quasi i promotori dell’iniziativa, si schierò con tutto il suo peso a favore dell’erezione del monumento, trasformandola in un’arma nella sua guerra contro la Chiesa e assumendola come una bandiera. “il Campo Maledetto” >>>

  9. Il ponteficeminacciò di abbandonare Roma per rifugiarsi nella cattolica Austria, qualora la statua fosse stata scoperta al pubblico. Quando il Segretario di Stato Vaticano riportò tale intenzione del pontefice al Primo Ministro Italiano Francesco Crispi, questi letteralmente rispose:“dica a sua santità che se dovesse andare via dall’Italia non potrà più ritornare”. Subito dopo, l’adesione di Crispi dette via libera al progetto. A seguito delle elezioni amministrative del giugno 1888 entrarono nella rappresentanza municipale esponenti anticlericali, tra cui Ettore Ferrari, lo scultore massone artefice della statua considerato un uomo della sinistra “radicale” non massimalista, mentre non furono eletti politici contrari all’erezione della statua. Prima della fine dell’anno fu approvato, senza difficoltà, il progetto del monumento a Bruno, fra gli applausi del pubblico che urlava: “Viva Crispi!” “Viva Crispi!” >>>

  10. “A Bruno, il secolo da lui divinato qui dove il rogo arse” Finalmente il 9 giugno 1889, giorno di Pentecoste, venne inaugurato a Campo de’ Fiori, con la partecipazione di un’immensa folla festante, il monumento di Ettore Ferrari, lo scultore che nel 1904 sarà eletto gran maestro della massoneria. Alla base del monumento si legge un’iscrizione del filosofo Giovanni Bovio, oratore ufficiale della cerimonia di inaugurazione: “A Bruno, il secolo da lui divinato qui dove il rogo arse“… >>>

  11. Con quella frase, si tracciava una continuità tra il pensiero di Giordano Bruno e quello del secolo che si apriva. Si vedeva in Bruno il precursore della libertà di pensiero, il martire dell’intolleranza e dell’oscurantismo religioso. Il pensiero anticlericale e massone si riconosceva in Bruno: lo eleggeva a suo nume tutelare. Bruno e i martiri del libero pensiero Sottolineavano questa immagine gli otto medaglioni posti sulla base del monumento, che ritraevano altrettanti «martiri del libero pensiero», intellettuali e riformatori perseguitati dall’intolleranza religiosa: Huss, Wycliffe, Serveto, Aonio Paleario, Vanini, Ramos, Campanella e Paolo Sarpi. Ma come si era costruita quest’immagine, che era un’evidente deformazione in chiave anticlericale della figura di Bruno, ma che pur raccoglieva e interpretava spunti e temi ben presenti nella sua opera? >>>

  12. Il processo di costruzione e di trasformazione mitica era in realtà complesso: ne faceva parte una superficiale e generica immagine della lotta tra oscurantismo e libero pensiero, ma più profondamente esso traeva radici da una specifica ricostruzione storica dell’intero pensiero filosofico italiano, dal Rinascimento al Risorgimento. Al tempo stesso, tale immagine si innestava in una connessione strettissima, fatta propria in questi anni dal mondo liberale, tra Risorgimento e libertà di pensiero, tra lotta per l’unità e lotta per la libertà religiosa e ideologica: «Noi godiamo oggi della libertà di scienza e di coscienza, di parola e di discussione; conosciamo la dichiarazione dei diritti e quella dei doveri dell’uomo; abbiamo una patria, perché dal rogo di Aonio Paleario a quello di Bruno e di Giulio Cesare Vanini, dall’esilio di Dante a quello di Mazzini, dal carcere di Campanella alle torture di Galileo, dai campi di Calatafimi e Volturno ad Aspromonte a Bezzecca a Mentana, gli eroi del pensiero e dell’azione fecero di sé olocausto, affermando e perpetuando nei secoli che —anche senza la Chiesa e contro la Chiesa — gli uomini sono capaci dei grandi sacrifici per l’adempimento dei grandi pensieri», affermava uno dei tanti scritti pubblicati in questi anni. “Tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla” >>>

  13. Ecco, le due occasioni, i 150 anni dall’Unità d’Italia e il Certamen Bruniano 2011 su “Lo Spaccio de la bestia trionfante”, ci consentono di sviluppare un nesso interessante tra il progetto di renovatio mundi di Bruno e l’ideale post-unitario del fare gli italiani, tra Rinascimento e Risorgimento: cosa significa essere italiano oggi?Comportarsi da italiano, fare “l’Italiano”? >>>

  14. Al di là da facili retoriche sugli italiani, sui loro vizi e pregi, obbiettivo dell’accostamento è avviare una riflessione capace di rompere con le tesi tradizionali e denigratorie, o meglio auto-denigranti, diffuse un po’ ovunque, sugli italiani e dagli italiani stessi, partendo da un dato di fatto: 150 sono gli anni che ci separano dall’unità d’Italia e dalle sue contraddizioni, e la stessa frase di d’Azeglio più che un appello alla creazione di un’identità nazionale italiana, esprimeva la necessità di correggere la decadenza del carattere italico, una decadenza che è ritenuta il prodotto di secoli di despotismo, materialismo, corruzione e Chiesa e creare delle persone migliori. Questo è forse ciò che vuole dire d’Azeglio con ”fare gli italiani”: liberarli da vizi quali indisciplina, irresponsabilità, pusillanimità e disonestà (vizi che, come molti patrioti del Risorgimento, ritiene essere alle radici del declino dell’Italia a partire dal Rinascimento) ed instillare in loro ciò che egli chiamava ”doti virili”. Certo, lascia perplessi il fatto che questo fine venga professato così a chiare lettere proprio da d’Azeglio, che era stato tra i più restii all’unione (“La fusione coi Napoletani mi fa paura (…) è come mettersi a letto con un vaiuoloso”) e capiamo bene che l’uso politico che si è fatto di Giordano Bruno ha rischiato, per certi versi, di portare ad un travisamento e ad un allontanamento dal suo messaggio originale. Fare gli Italiani >>>

  15. Tuttavia, si può affermare con certezza che temi analoghi a questi sono presenti e trovano espressione nei cosiddetti «dialoghi morali»: lo Spaccio de la bestia trionfante, la Cabala del cavallo Pegaseo e De gli eroici furori. In particolare, dall’esame de lo Spaccio – nostro obbiettivo primario ai fini del certamen di aprile - emergerà un’etica strettamente connessa al tema dell’infinito, così rivoluzionario nell’impostazione di Bruno. Se la fondazione di un universo senza limiti e gerarchie dissolve radicalmente tutti i presupposti tradizionali, compresi quelli che definivano il ruolo, la dignità e la moralità dell’uomo, al tempo stesso pone le premesse per una riconfigurazione e per un rinnovamento dei valori e una riforma della società. Bruno nello Spaccio della bestia trionfante ne delinea finalmente le caratteristiche fondanti. La società deve divenire giusta, proteggendo i deboli, favorendo la libera ricerca e gli studi utili per la collettività, affidando il governo a persone competenti e sagge: “…gli deboli non siano oppressi dagli più forti, sieno deposti gli tiranni, ordinati e confirmati gli giusti governatori e regi, siano faurite le repubbliche, la violenza non inculche la raggione, l’ignoranza non dispreggie la dottrina,…le virtudi e studii utili e necessarii al commune sieno promossi, avanzati e mantenuti; sieno esaltati e remunerati coloro che profitteranno in quelli; e gli desidiosi, avari e proprietarii sieno spreggiati e tenuti a vile. …nessuno sia preposto in potestà, che medesimo non sia superiore de meriti, per virtude ed ingegno in cui prevaglia…” “…niente però è giusto che non sia possibile…nessuna legge che non è ordinata alla prattica del convitto umano, deve essere accettata… non deve esser approvata, né accettata quella istituzione o legge che non apporta la utilità e commodità, che ne amena ad ottimo fine”. Da lo Spaccio de la bestia trionfante L’ottimo fine è la convivenza civile. lo Spaccio de la bestia trionfante >>>

  16. La riforma di Bruno (forse appena abbozzata: ma fu ucciso a 52 anni!) è dunque l’approdo di tutta la Nolana filosofia. Una filosofia di grande attualità; un incitamento per ciascuno di noi a crearci, assumendoci il peso della libertà e della responsabilità di scegliere ed agire. Un incitamento ancora più attuale e urgente nell’Italia dei 150 anni dopo… concludiamo dunque questa prima introduzione alla filosofia di G. Bruno per fare gli italiani, enucleando (cfr M. Vegetti Le Ragioni della filosofia, p.52) i restanti temi affrontati ne Lo Spaccio: li esamineremo poi, direttamente dal dettaglio testuale. La riforma di Bruno Caratteri e virtù per il rinnovamento morale Lo Spaccio — costruito come il resoconto di un concilio degli dèi convocato da Giove per liberare il cielo dalle «bestie», cioè dai vizi — illustra i caratteri e le virtù che devono essere posti a base del rinnovamento morale, religioso e civile cui sono ormai chiamati gli uomini. Valorizzando concetti quali la Verità, la Sofia («Sapienza»), la Legge, e le virtù che sono a fondamento della convivenza umana, quali la Prudenza, la Fatica, la Sollecitudine, lo Studio, l’Industria, la Filantropia, la Magnanimità, Bruno sottolinea che l’uomo — pur sottoposto, come tutti gli altri enti, al ciclo infinito della vicissitudine — può tuttavia lasciare un segno della sua presenza nel mondo. E può farlo, grazie a un uso laborioso e consapevole degli organi che lo caratterizzano: e l’intelletto la mano

  17. L’operosità dell’uomo L’operosità consente all’uomo di farsi «dio de la terra», affiancandosi in certo modo a Dio nella trasformazione della natura. Se l’eccellenza dell’uomo scaturisce dalla sinergia fra azione e contemplazione, l’ozio e la passività ne costituiscono al contrario i vizi più gravi, e tali da assimilarlo a una condizione ferina. Questi sono i vizi che devono essere allontanati dal mondo, se è vero che la stessa legge divina guarda in primo luogo ai frutti delle azioni degli uomini La metempsicosi e il giudizio sulle azioni Per Bruno — che rielabora nello Spaccio la dottrina pitagorica della metempsicosi (trasmigrazione delle anime) — il castigo di chi, vivendo oziosamente, ha rinnegato e mortificato la propria umanità è quello di vedersi imprigionato, nella successiva incarnazione, in un corpo inferiore e bestiale. In questo modo, il divenire della realtà, la vicissitudine delle infinite trasformazioni cui dà luogo l’esplicarsi della sostanza si configura anche come espressione di una provvidenza divina, trasformandosi da ciclo cieco e casuale a opera di giustizia, volta a ricompensare o punire ciascuno per quanto ha meritato nel corso dell’esistenza. >>>

  18. Il rifiuto della dottrina luterana della giustificazione Ogni tentativo di svincolare la giustizia dalla responsabilità e dal merito umano è destinato a produrre frutti perversi, come è accaduto con Lutero, che ha voluto ignorare i comportamenti dei singoli per proclamare l’uguaglianza uniforme di tutti gli uomini nel peccato. Ed è proprio a partire dal concetto di giustizia che Bruno nello Spaccio attacca con grande durezza la dottrina luterana della salvezza per sola fede, mettendone in discussione sia il valore teologico che la portata etica, e affermando con forza che «le giustizie interiori mai sono giustizie senza la prattica esterna». Lutero, presentando una religione che riconduce premi e punizioni ultraterrene al dono gratuito e casuale della grazia, ha infatti predicato una morale dell’ozio e dell’attesa passiva della salvezza divina, che è antitetica al ruolo proprio dell’uomo. Civiltà egizia come culla della vera giustizia e Armonia tra Dio, uomo e natura Mostrando le radici teologiche e religiose della decadenza universale già denunciata, Bruno afferma dunque che la «vecchiaia» del mondo si è determinata quando la predicazione di Lutero ha affermato che non può esistere rapporto tra giustizia di Dio e giustizia degli uomini. Al contrario, nella civiltà dell’Egitto, reinterpretata anche sulla base dell’ermetismo, Bruno individua l’epoca della «giovinezza» del mondo, una stagione positiva e prospera della civiltà. Allora non regnava la falsa giustizia di Lutero, ma la giustizia vera, quella che nasce dalla corrispondenza e dalla concordia fra Dio, natura e uomo. Così, nell’ultima parte dello Spaccio, Bruno celebra le arti magiche dei sacerdoti egizi, iquali, da profondi conoscitori delle forze che agiscono nel mondo naturale, avevano elaborato un raffinato cerimoniale magico per comunicare con gli dèi. > > >

  19. Divina magia degli egizi, stolta idolatria dei cristiani […] vedo come que’ sapienti con questi mezzi erano potenti a farsi familiari e domestici gli dèi che per voci che mandavano da le statue gli donavano consegli, dottrine, divinazioni et instituzioni sopraumane: onde con magici e divini riti per la medesima scala di natura salevano a l’alto della divinità, per la quale la divinità descende sino alle cose minime per la comunicazione di se stessa. Ma quel che mi par da deplorare, è che veggio alcuni insensati e stolti idolatri li quali, non più che l’ombra s’avicina alla nobilità del corpo, imitano l’eccellenza del culto de l’Egitto; e che cercano la divinità, di cui non hanno raggione alcuna, ne gli escrementi di cose morte et inanimate. >>>

  20. Verso il certamen:lavorare sul testo de “Lo Spaccio” Nel portare a termine sia questa ricognizione preliminare tra i temi morali evocati ne Lo Spaccio, che il tentativo che abbiamo fatto di collegarli ai temi del Risorgimento, trascriviamo la traccia selezionata per il Certamen bruniano del 2003, anch’essa incentrata su Lo Spaccio, invitando gli studenti a verificarne lo svolgimento nei 18 compiti classificatisi alla gara e reperibili all’url: http://www.meridies-nola.org/certame/cer_temi2003.htm Traccia: Centrale nello Spaccio de la bestia trionfante è il tema della giustizia. Giove, rinsavito, vuole sostituire, agli antichi, nuovi valori, tutti ispirati al senso della responsabilità e della libertà propria dell'uomo. Ciascuno, infatti, liberamente e responsabilmente può migliorare se stesso con lo studio e la fatica, e diventare migliore di altri e di se stesso con lo studio e la fatica, e diventare migliore di quella "certa neutralità e bestiale equalità, quale si ritrova in certe deserte e inculte republiche". Contro l'uguaglianza astratta che, nel livellare tutto e tutti, cancella impegno e merito dei singoli e, nell'appiattimento indistinto e casuale delle fortune e dei destini, mortifica la tensione al miglioramento di cisacuno, invoca la giustizia. Questa deve assicurare l'affermazione di quanti hanno migliorato se stessi con ferma volontà e costante applicazione contro quelli che rivendicano privilegi di sangue, di titoli o di condizione economica, non supportandoli con virtù e competenze specifiche. Per Bruno, infatti, la dignità, non è una qualità connaturata all'uomo e, quindi, di tutti. E', invece, una faticosa conquista individuale, frutto dell'applicazione vigile e costante di ciascuno. La Giustizia, perciò, è chiamata a vigilare affinchè ognuno occupi il posto adeguato alle proprie specifiche competenze e ai propri comprovati meriti. Per tutto questo, nel dialogo terzo dello Spaccio, Giove ordina: "Le Bilancie [...] vadano per le fameglie, acciò con esse li padri veggano dove meglio inchinano [inclinano] gli figli, se a lettere, se ad armi; se ad agricoltura, se a religione [...]. Discorrano le Accademie ed Universitadi, dove s'essamine se quei che presumeno d'insegnar in catedra e scrittura, hanno necessità d'udire e studiare [...]. Per le corti, a fin che gli ufficii, gli onori, le sedie, le grazie ed exenzioni corrano secondo che ponderano gli meriti e dignitade di ciascuno [...]. Per le republiche, acciò ch'il carrico delle administrazioni contrapesi alla sufficienza e capacità de gli suggetti; e non si distribuiscano le cure con bilanciar gli gradi del sangue, de la nobilitade, de' titoli, de ricchezza; ma delle virtudi che parturiscono gli frutti de le imprese; perchè presiedano i giusti, contribuiscano i facultosi, insegnino li dotti, guideno gli prudenti, combattano i forti, conseglino quei ch'han giudicio, comandino quei ch'hanno autoritade". Ciascuno di voi, partendo da queste affermazioni, faccia le proprie considerazioni. fine

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