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( mercoledí 17-19h, MIS 3028)

AA 2012-2013 SP 2013 Prof . Uberto MOTTA Corso monografico di letteratura moderna Le Odi e Il Giorno di Parini. ( mercoledí 17-19h, MIS 3028). Calendario. 1) 20 febbraio 2) 27 febbraio 3) 6 marzo 4) 13 marzo 5 ) GIOVEDÌ 14 marzo, 17-19h (recupero del 24 aprile) MIS 3026

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Presentation Transcript


  1. AA 2012-2013 SP 2013Prof. Uberto MOTTACorso monografico di letteratura modernaLe Odi e Il Giorno di Parini (mercoledí 17-19h, MIS 3028)

  2. Calendario 1) 20 febbraio 2) 27 febbraio 3) 6 marzo 4) 13 marzo 5) GIOVEDÌ 14 marzo, 17-19h (recupero del 24 aprile) MIS 3026 6) 20 marzo 7) 27 marzo 3 aprile: vacanze di Pasqua 8) 10 aprile 9) 17 aprile 24 aprile: lezione sospesa – recupero: 14 marzo 10) 1 maggio 11) GIOVEDÌ 2 maggio, 17-19h (recupero del 15 maggio) MIS 3026 12) 8 maggio 15 maggio: lezione sospesa – recupero: 2 maggio 13) 22 maggio 14) 29 maggio

  3. Bibliografia (1) Edizione d’uso G. Parini, Il Giorno. Le Odi, a cura di Giuseppe Nicoletti, Milano, Rizzoli-BUR, 2011. Edizioni di consultazione G. Parini, Poesie e prose, a cura di Lanfranco Caretti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951. G. Parini, Il Giorno, ed. critica a cura di D. Isella, 2 voll., Milano-Napoli, Ricciardi, 1969. G. Parini, Le Odi, ed. critica a cura di D. Isella, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975. G. Parini, Il Giorno, edizione critica di Dante Isella, commento di Marco Tizi, Milano-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda Editore, 1996. G. Parini, Le Odi, a cura di Nadia Ebani, Milano-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda Editore, 2010.

  4. Bibliografia (2) R. Spongano, Il primo Parini, Bologna, Patron, 1963. L. Poma, Stile e società nella formazione del Parini, Pisa, Nistri-Lischi, 1967. D. Isella, L’officina della «Notte» e altri studi pariniani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1968. R. Leporatti, Per dar luogo a la notte. Studi sull’elaborazione del «Giorno» del Parini, Firenze, Le Lettere, 1990. M. Tizi, La lingua del «Giorno» e altri studi, Lucca, PaciniFazzi, 1997. Interpretazioni e letture del «Giorno»,Atti del Convegno (2-4 ottobre 1997), a cura di G. Barbarisi e E. Esposito, Milano, Cisalpino, 1998. L’amabil rito. Società e cultura nella Milano del Parini, Atti del Convegno (8-10 novembre e 14-16 dicembre 1999), 2 voll., Milano, Cisalpino, 2000. Le buone dottrine e le buone lettere, Atti del Convegno (17-19 novembre 1999), a cura di B. Martinelli, C. Annoni e G. Langella, Milano, Vita e Pensiero, 2001. Rileggendo Giuseppe Parini. Storia e testi, Atti del Convegno (10-12 maggio 2010), a cura di M. Ballarini e P. Bartesaghi, Milano, Biblioteca Ambrosiana, 2011.

  5. Milano nel Settecento • 1706, il Ducato di Milano è integrato all’Impero Asburgico • 1740, sale al trono Maria Teresa d’Austria • 1780, morte di Maria Teresa e successione di Giuseppe II • 1790, morte di Giuseppe II; gli succede il fratello Leopoldo II, e alla morte di questi (1792) sale al trono Francesco II • 1796-97, campagna d’Italia di Napoleone. Costituzione della Repubblica Cisalpina, di cui Milano è capitale • Nel 1769 Milano ha 125mila abitanti : il 4% nobili (5160), il 5% ecclesiastici (6670), il 91% (114500) terzo stato (di cui 64800 donne, fanciulli o vecchi, e 49700 individui attivi).

  6. La cultura milanese alla metà del Settecento • Accademia dei Trasformati, 1743-1768, fondata dal conte Giuseppe Maria Imbonati ► autori dialettali: Carl’AntonioTanzi, Domenico Balestrieri, Giancarlo Passeroni • Accademia dei Pugni, 1761-1766, fondata da Pietro e Alessandro Verri ► 1764, Dei delitti e delle pene ► 1764-66, «Il Caffè»

  7. Pietro Verri, Perché mai gli uomini di lettere erano onorati nei tempi addietro, e lo sono sì poco ai tempi nostri? “Sorge una disputa fra due o più oscuri scrittori per sapere qual fosse la patria d’Omero, di Plinio, del Tasso, e che so io: ciascuno vi suda degli anni, e partorisce un grosso tomo, e lo fa stampare, e poi si lagna perché nessuno lo legga. Ma che vuole egli, che gli uomini s’annoino a leggere un ammasso disordinato di rottami d’erudizione per cavarne poi una notizia la quale non contribuisce in nulla al bene di alcuno? Viene un altro, e vi scarabocchia egloghe, sonetti, eterne inezie in rima, le quali partono da un animo vôto d’idee, e non lasciano al lettore che il rimorso d’avere malamente speso il suo tempo: con quale titolo pretende egli alla stima de’ suoi contemporanei? Scrivete, o giovani di talento, giovani animati da un sincero amore del vero e del bello, scrivete cose che riscuotano dal letargo i vostri cittadini, e gli spingano a leggere, e a rendersi più colti; sferzate i ridicoli pregiudizi che incatenano gli uomini, e gli allontanano dal ben fare; comunicate agli uomini le idee chiare, utili e ben disposte; cercate in somma di rendere migliori e nel cuore e nello spirito i vostri contemporanei”.

  8. D. Balestrieri, Rime milanesi: Sora l’ignoranza (ed. 1774) De ignoranza ghe n’è propri a baloch e par quistalla no ghe va sudor, e l’è par quest che ’n vedem minga pocch, che la cobbien col titol de dottor. La tacca l’ignoranza e sciori e sbiocch, ma in di sciori la troeuva de impostor, c’hinmarzocch, e no passen par marzocch mediant i fedfals di adulator. Gh’èl’ignoranza, che la se po’ dì de so pè; gh’èpoeùl’oltra de chi lassa mal coltivaa on talent, che ’l pòfruttì. Ma via d’on certepitettuttcoss passa; elmèbrusor de stomegh l’è a sentì quella, che ciammen ignoranza grassa. Di ignoranza ce n’è proprio a bizzeffe e non occorre sudare per acquistarla; per questo ne vediamo non pochi, che la accompagnano col titolo di dottore. L’ignoranza contagia ricchi e miserabili, ma fra i ricchi trova degli impostori, i quali pur essendo dei babbei non passano per tali, grazie alle false attestazioni degli adulatori. C’è l’ignoranza che su può definire naturale; c’è poi l’altra di chi lascia mal coltivato un talento, che potrebbe dare frutti. Ma tutto è ammissibile, tranne un certo epiteto; mi viene il brucior di stomaco sentendo quella che chiamano ignoranza crassa.

  9. Giuseppe Parini (1729-1799)Tratti fondamentali di una personalità complessa • l’umile origine • l’innata vocazione pedagogica • la fermissima fede nell’utilità sociale della poesia e della cultura • la concezione non formale del cristianesimo

  10. J.B. D’Alembert, Essai sur la société des gens de lettres et des grands (1753)

  11. Appunti per una biografia (I) • 1729, nascita • 1738, trasferimento a Milano • 1740-52, studi presso la scuola di Sant’Alessandro dei padri Barnabiti • 1752, Alcune poesie di RipanoEupilino • 1753, ingresso nell’Accademia dei Trasformati • 1754-62, precettore in casa dei duchi Serbelloni • 1763-68, precettore in casa dei conti Imbonati • 1763, Il Mattino • 1765, Il Mezzogiorno

  12. Appunti per una biografia (II) • 1768, nomina a poeta del Regio Ducale Teatro • 1769, redattore della «Gazzetta di Milano» e professore di eloquenza e belle lettere alle Scuole Palatine • 1771, Ascanio in Alba • 1774, membro della commissione per la riforma delle scuole • 1776, membro della Società patriottica • 1791 sovrintendente alle Scuole pubbliche; edizione delle Odi (a c. di A. Gambarelli) • 1799, morte

  13. Alcune poesie di RipanoEupilino, I Voi, che sparsi ascoltate in rozzi accenti i pregi eccelsi della Donna mia, non istupite, se tra questi fia cosa ch'avanzi 'l creder delle genti; poichè, sebbene per laudarla i' tenti le penne alzar per ogni alpestre via, quel che meglio però dir si devria, riman coperto alle terrene menti. Nè sia chi dall'esterno mio dolore, onde in pianti mi struggo a poco a poco, misuri la pietà dentro al suo core: perchè, quantunque in ogni tempo e loco far mostra i' soglia del mio grande ardore, assai maggior, ch'i' non dispiego, è 'l foco.

  14. Alcune poesie di RipanoEupilino, LXXIII O Fortuna, Fortuna crudelaccia, che se' fatta per mia disperazione; Fortuna non più no, ma Fortunaccia, ha a durare un pezzo sta canzone? Vogliamfinirla, e volger quella faccia un poco ancora alle buone persone? Che sì, che mi daresti roba a braccia s'io t'avessi la ciera d'un briccone? S'io fossi, verbigrazia, una puttana, o un castrato, o una cantatrice, o un bel marmocchio, ovvero una ruffiana? Allora sì diventerei felice. Ma perchè osservo la legge cristiana, ognun mi scaccia, ognun mi maladice, e son sempre infelice. Ma vivrò, sguaiataccia, al tuo dispetto; e se ti grappo un dì per quel ciuffetto, te lo strappo di netto: sicchè i ragazzi, a vederti sì bella, t'abbiana gridar dietro: — Vella, vella!

  15. Alcune poesie di RipanoEupilino, LXXXI Voi me ne avete fatti tanti e tanti di questi vostri attacciarcipoltroni, che se tornate a rompermi i. . . . . . . . vi tratterò da birbe e da furfanti. Voi siete una tormaccia di pedanti, che non volete intender le ragioni; e perchè fate i saggi e i dottoroni stimate gli altri goffi ed ignoranti. Che c'è egli drento in que' vostri libracci a non volere che sien letti mai quando voi nol volete, ignorantacci? Il diavol, credo, che vi salti omai su que' vostri muffati granellacci, e vi faccia gridare: — Ahi ahiahiahi! —

  16. Opere di Giuseppe Parini, a cura di F. Reina, 6 voll., Milano 1801-1804 F. Reina, Vita di Giuseppe Parini GIUSEPPE PARINI da Bosisio terra del Milanese situata presso il Lago di Pusiano nacque il 29 maggio 1729 di oscuri, ma civili parenti. Il padre suo, che teneramente l'amava, benchè possessore di un solo poderetto, recossi a vivere in Milano, per dare al vivacissimo ed ingegnoso figliuolo una diligente. Questi applicò alle Umane Lettere, ed alla Filosofia nel Ginnasio Arcimboldi diretto da' Barnabiti, e gli studj suoi furono, quali da' tempi volevansi, infelici. Apparve in esso di buon'ora un genio libero filosofico e singolarmente dedito alla Poesia; nè vi si richiese meno della paterna autorità, per istrascinarlo repugnante alla Teologia, ed al Sacerdozio. educazione.

  17. G. Parini, Dialogo sopra la nobiltà (I) Poeta. Questo è un luogo ove tutti riescono pari; e coloro, che davansi a credere tanto giganti sopra di noi colassù, una buona fiata [> volta] che sien giunti qua, trovansi perfettamente appaiati [> agguagliati] a noi altra canaglia: non ècci[> vi è] altra differenza, se non che, chi più grasso ci giugne, così anco più vermi se 'l mangiano. Voi avete in oltre a sapere che quaggiù solo [> solamente] stassi ricoverata la verità. Quest'aria malinconica, che qui si respira fino a tanto che reggono i polmoni, non è altro che verità, e le parole, ch'escono di bocca, il sono pure.

  18. G. Parini, Dialogo sopra la nobiltà (II) Poeta. Onde vien egli però che, quando io era colassù tra' viventi, a me pareva che una così gran parte di voi altri fosse ignorante, stupida, prepotente, avara, bugiarda, accidiosa, ingrata, vendicativa e simili altre gentilezze? Forse che talora per qualche impensato avvenimento si è introdotta qualche parte del nostro sangue eterogeneo per entro a que' purissimi canali de' vostri antenati? Ed onde viene ancora, che tra noi altra plebe io ho veduto tante persone letterate [> scienziate], valorose, intraprendenti, liberali, gentili, magnanime e dabbene? Forse che qualche parte del vostro purissimo sangue vien talora, per qualche impensato avvenimento, ad introddursi negli oscuri canali di noi altra canaglia?

  19. G. Parini, Dialogo sopra la nobiltà (III) Poeta. Non vi sembra egli giusto che, se voi avete ereditato i loro meriti, così ancora dobbiate ereditare i loro demeriti, a quella guisa appunto che chi adisce un'eredità assume con essa il carico de' debiti che sono annessi a quella? e che per ciò, se quelli furono onorati, siate onorato ancora voi, e, se quelli furono infami, siate infamato voi pure? Nobile. No certo, ché cotesto non mi parrebbe né convenevole né giusto. Poeta. E perché ciò? Nobile. Perché io non sono per verun modo tenuto a rispondere delle azioni altrui. Poeta. Per qual ragione? Nobile. Perché, non avendole io commesse, non ne debbo perciò portare la pena. Poeta. Volpone! voi vorreste adunque godervi l'eredità, lasciando altrui i pesi, che le appartengono, eh! Voi vorreste adunque lasciare a' vostri avoli la viltà del loro primo essere, la malvagità delle azioni di molti di loro e la vergogna che ne dee nascere, serbando per voi lo splendore della loro fortuna, il merito delle loro virtù, e l'onore ch'eglino si sono acquistati con esse. Nobile. Tu m'hai così confuso, ch'io non so dove io m'abbia il capo.

  20. G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (I) Non siete voi letterato? Non siete voi cittadino? Non siete voi cristiano? Non siete voi Religioso? […] Le scienze vi debbon pure avere insegnato che tanto vale l’uno quanto l’altr’uomo: gli obblighi del cittadino debbono avervi ammaestrato a non far veruna distinzione tra i vostri compatriotti, quando questi, ciascuno per la sua via, tendono alla comune felicità: la carità del cristiano a portare e mostrare anche nelle menome cose amore indistintamente ed universalmente a tutti quanti i prossimi vostri: e l’osservanza religiosa, per fine, a perfezionare in voi tutte queste virtù, che debbono esser proprie del letterato, del cittadino e del cristiano. Ecco le riprensioni che vi si potrebbero fare, se voi vi burlaste delle povere femminelle milanesi contra i doveri del cittadino, e contra il precetto il qual dice: ‑ Merita pena colui che chiama il suo fratello pazzo o carogna [cfr. Mt 5,22: “chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna”].

  21. G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (II) Ma via, sia pur vero che voi abbiate biasimato solamente il linguaggio della plebe nostra, come andate dicendo nel secondo Dialogo. Tenete però voi in così piccolo conto questa lingua, che meriti d’esser chiamata, anche in presenza di chi la parla, lingua d’oca, lingua sgraziata, goffa, fetente, unta, lercia, scipita, disadatta? Questo linguaggio anzi della plebe, che voi nel secondo Dialogo volete aver solo biasimato, questo anzi è il vero e più puro linguaggio milanese, e quello per conseguenza che meno dovrebbe meritarsi le vostre derisioni. Le lingue, come voi medesimo a me potete insegnare, sono tutte indifferenti per riguardo alla intrinseca bruttezza o beltà loro. Le voci, onde ciascuna è composta, sono state somministrate agli uomini dalla necessità di spiegare e comunicarsi vicendevolmente i pensieri dello animo loro; e la Natura, a misura che negli uomini sono cresciute le idee, ha dato loro segni da poterle esprimere al di fuori: onde nasce che ciascuna lingua è abbastanza perfetta, qualora non manchino ad essa quelle voci che si richieggono a potere spiegare ciascuna idea di colui che la parla.

  22. G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (III) Noi Milanesi siamo presso le altre nazioni distinti per la semplicità e per la schiettezza dello animo; e per quella nuda ed amorevole cordialità che è il più soave legame della società umana. […] Questa medesima schiettezza e semplicità, che i forestieri riconoscono come singolarmente propria della nostra nazione, è paruto di trovar nella nostra lingua milanese a coloro de’ nostri che posti sonosi ad esaminarne la natura. E, o sia che realmente i Milanesi non abbiano giammai appreso a favellare dall’arte, e non abbiano vocaboli o maniere di dire proprie a deludere altrui, siccome quelli che non ne hanno i pensieri; o sia che gli osservatori del nostro dialetto abbian creduto di vedere in esso ciò ch’eglino stessi desideravano; certa cosa è che la nostra lingua è sembrata loro spezialmente inchinata ad esprimer le cose tali e quali sono, senza aver grande bisogno in qualunque argomento di sostenerla con tropi e traslati ed altre maniere artifiziose del dire, che nate sono, o dalla mancanza dell’espressioni proprie e naturali. o dall’arte di sorprendere il cuore ferendo l’immaginazione.

  23. Due discorsi ai Trasformati • 1761, Discorso sopra la poesia, BAM = ms con cancellature e correzioni autografe; Reina, IV, pp. 49-68 • 1762, Discorso sopra la carità, BAM = ms con cancellature e correzioni autografe; Reina, IV, pp. 100-121

  24. G. Parini, Discorso sopra la poesia (1761) Il poeta, come si può dedurre da quel che di sopra abbiamo detto della poesia, dee toccare e muovere; e, per ottener ciò, dee prima esser tócco e mosso egli medesimo. Perciò non ognuno può esser poeta, come ognuno può esser medico e legista. Non a torto si dice che il poeta dee nascere. Egli dee aver sortito dalla natura una certa disposizione degli organi e un certo temperamento che il renda abile a sentire in una maniera, allo stesso tempo forte e dilicata, le impressioni degli oggetti esteriori; imperocchè come potrebbe dilicatamente o fortemente dipingerli ed imitarli chi per un certo modo grossolano ed ottuso le avesse ricevute? La poesia che consiste nel puro torno del pensiero, nella eleganza dell'espressione, nell'armonia del verso, è come un alto e reale palagio che in noi desta la maraviglia ma non ci penetra al cuore. Al contrario la poesia che tocca e muove, è un grazioso prospetto della campagna, che ci allaga e ci inonda di dolcezza il seno.

  25. G. Parini, Sopra la carità, 1762 Quanto desiderabile cosa sarebbe mai che tutti coloro che sortito hanno dalla natura uno ingegno adatto alle Lettere, fossero stimolati allo studio ed allo scrivere non da una leggiere curiosità o da un vano amore di gloria; ma dalla caritàde’ suoi prossimi, de’ suoi concittadini, del suo paese? Quanti inconvenienti non si verrebbono a schifare così, e di quanto maggior utile sarebbono le lettere e i letterati nel mondo! L’uomo che dalla semplice curiosità o dal solo amore della gloria è condotto alle lettere, non avviene giammai che non sia accompagnato nella sua carriera da uno stuolo di vizii, che a lui recano danno e notabilmente ostano all’altrui utilità, la quale ogni uomo dabbene dee proporsi per iscopoprincipale del suo operare. […] La nuda ambizione letteraria non solo è fabbricatrice di strane e pericolose opinioni per amore di singolarità; ma eziandio, per sua natura e per suo proprio interesse, si ostina pertinacemente in quelle; e, posciaché non le è permesso di sostenerle colla ragione, almeno tenta di farlo co’ sofismi, e con ciò che per onta della letteratura chiamasicabala letteraria; e non di rado ancora colla prepotenza. […] Quell’uomo d’ingegno che sul principio della sua letteraria carriera è assistito dallo spirito della carità, prima d’ogni altra cosa riflette seco medesimo che l’uomo dabbene dee consacrare alla utilità de’ suoi prossimi, o sia della repubblica in cui vive, ciò che, oltre la conservazione di se medesimo, formar dee l’occupazione principale della sua vita.

  26. Struttura e storia interna del Giorno • Giorno I = Mattino 1763 (due stampe; vv. 1083) e Mezzogiorno 1765 (vv. 1376) • Giorno II = Mattino II (8 mss.; vv. 1166), Meriggio (2 mss.; vv. 1178), Vespro (1 ms.: 349 vv.), Notte (vari mss. per un totale di 673 vv.) ►datazione approssimativa: 1777-1790 (più precisamente: 1784-88, con riprese tra il 1792 e il 1796)

  27. Lettera di G. Parini a G. Bodoni, 18.X.1791 Nella primavera ventura spero e quasi tengo per certo d’avere in pronto due poemetti, per séguito e per termine di quelli altri antichi due, che hanno avuto la fortuna di non dispiacere. Se mai ella mi facesse l’onore di meditar nulla anche intorno all’edizione di essi, ella si compiaccia di farmene cenno. I due primi uscirebbero corretti, variati in qualche parte e accresciuti. Così tutti e quattro verrebbero ad essere nuovi e ridotti in un slo poema, che avrebbe per titolo Il Giorno.

  28. Della vita e degli scritti di G. Parini. Lettere di due amici [Luigi Bramieri e Pompilio Pozzetti], Milano 1802, p. 47 • Pompilio Pozzetti afferma che Parini, da lui sollecitato a pubblicare l’opera, avrebbe risposto che dal 1796 «aveva cominciato a riguardare qual pretta viltà, niente men turpe che insaevirein mortuum, l'acconsentir, dopo tanto procrastinare, all'edizione d'uno scritto, ove si pungono di sarcasmo quelli singolarmente che nel gran corpo sociale formavano una classe distinta, di cui i politici cangiamenti sopraggiunti allora nel proprio paese facean veder manifesta la totale decadenza".

  29. D. Isella, Introduzione a Parini, Il Giorno, 1996 Parini non dovette mai avere un disegno generale, sia pure non rifinito nei dettagli, a cui rapportarsi; gli bastò, o gli parve all’inizio che potesse bastargli, l’ordine offertogli dal naturale succedersi delle ore del giorno, da un’alba all’altra: un filo molto semplice lungo il quale distribuire i molteplici «riti» del Bel Mondo, alcuni vincolati ad ore canoniche, altri più mobili. Ma per molte cose la collocazione rimaneva incerta, specie crescendo con gli anni il gusto dell’osservazione dal vero, lo spunto da taccuino. Fermo restando il tema dell’opera, costante l’idea del poema da compiere, Parini accettava ogni volta di buon grado i suggerimenti dell’occasione e, senza preoccuparsi più che tanto di come se ne sarebbe servito, componeva gruppi di versi che al momento non sapeva dove, e al limite neppure se, gli sarebbero potuti servire. […] Come pedine di una partita senza regole su una scacchiera senza caselle, fino a che ciascuno di essi trovi il suo posto immutabile in un equilibrio compositivo non preventivato. Il fatto però che Parini non sia arrivato al punto conclusivo del mobilissimo gioco combinatorio servirà a mettere in evidenza come ormai in lui forze le centrifughe di un’ispirazione lirica sensibile alle illuminazioni del particolare avessero il sopravvento sulla forza centripeta dell’ispirazione unitaria.

  30. Fonti e modelli • Gian Lorenzo Lucchesini, In antimeridianas improbi iuveniscuras, 1672 • Pier Jacopo Martello, Il segretario Cliternate, 1717 • Alexander Pope, The rape of the Lock, 1712 (edd. trad. it.: 1739, 1750, 1760)

  31. L’endecasillabo sciolto • Impiegato a partire dal Cinquecento: G. Trissino, L’Italia liberata dai Goti; L. Alamanni, La coltivazione; A. Caro, trad. dell’Eneide → poesia narrativa e discorsiva • Dal Settecento comincia a essere impiegato anche in sede lirica (Carlo Innocenzo Frugoni) • 1757: ed. del vol. Versi sciolti di tre eccellenti autori, cioè Algarotti, Frugonie Bettinelli • 1763: ed. della trad. in end. Sciolti delle Poesie di Ossian a c. di M. Cesarotti [orig. ingl. in prosa, opera di James Macpherson]

  32. La notte, vv. 601-617 Già per l'aula beata a cento intorno Dispersi tavolierseggon le dive, Seggon gli eroi, che dell'Esperia sono Gloria somma o speranza. Ove di quattro Un drappel si raccoglie: e dove un altro Di tre soltanto. Ivi di molti e grandi Fogli dipinti il tavolier si sparge: Qui di pochi e di brevi. Altri combatte; Altri sta sopra a contemplar gli eventi De la instabil fortuna e i tratti egregi Del sapere o dell'arte. In fronte a tutti Grave regna il consiglio: e li circonda Maestoso silenzio. Erran sul campo Agevoli ventagli, onde le dame Cercan ristoro all'agitato spirto Dopo i miseri casi. Erran sul campo Lucide tabacchiere.

  33. Il vespro, vv. 51-83 Ecco ella sorge; e del partir dà cenno: Ma non senza sospetti e senza baci A le vergini ancelle il cane affida Al par de' giochi al par de' cari figli Grave sua cura: e il misero dolente Mal tra le braccia contenuto e i petti Balza e guaisce in suon che al rude vulgo Ribrezzo porta di stridente lima; E con rara celeste melodia Scende a gli orecchi de la dama e al core. Mentre così fra i generosi affetti E le intese blandizie e i sensi arguti E del cane e di sè la bella oblia Pochi momenti; tu di lei più saggio Usa del tempo: e a chiaro speglio innante I bei membri ondeggiando alquanto libra Su le gracili gambe; e con la destra Molle verso il tuo sen piegata e mossa Scopri la gemma che i bei lini annoda; E in un di quelle ond'hai sì grave il dito L'invidiato folgorar cimenta: Poi le labbra componi; ad arte i guardi Tempra qual più ti giova; e a te sorridi. Al fin tu da te sciolto, ella dal cane Ambo al fin v'appressate. Ella da i lumi Spande sopra di te quanto a lei lascia D'eccitata pietà l'amata belva; E tu sopra di lei da gli occhi versi Quanto in te di piacer destò il tuo volto. Tal seguite ad amarvi: e insieme avvinti, Tu a lei sostegno, ella di te conforto, Iteneomai de' cari nodi vostri Grato dispetto a provocar nel mondo.

  34. Il mezzogiorno, vv. 715-743 Or d'avi, or di cavalli, ora di Frini Instancabile parla, or de' Celesti Le folgori deride. Aurei monili, E gemme e nastri, gloriose pompe L'ingombran tutto; e gran titolo suona Dinanzi a lui. Qual più tra noi risplende Inclita stirpe, che onorar non voglia D'un ospite sì degno i lari suoi? Ei però sederà de la tua Dama Al fianco ancora: e tu lontan da Giuno Tra i Silvani capripedi n'andrai Presso al marito; e pranzerai negletto Col popol folto degli Dei minori. Ma negletto non già dagli occhi andrai De la Dama gentil, che a te rivolti Incontreranno i tuoi. L'aere a quell'urto Arderà di faville: e Amor con l'ali L'agiterà. Nel fortunato incontro I messaggier pacifici dell'alma Cambieran lor novelle, e alternamente Spinti, rifluiranno a voi con dolce Delizioso tremito sui cori. Tu le ubbidisci allora, o se t'invita Le vivande a gustar che a lei vicine L'ordin dispose, o se a te chiede in vece Quella che innanzi a te sue voglie punge Non col soave odor, ma con le nove Leggiadre forme onde abbellir la seppe Dell'ammiratocucinier la mano.

  35. Alcune grandi scene • Mattino: risveglio, vestizione, colazione, acconciatura • Mezzogiorno/Meriggio: il rito del pranzo, la passeggiata in carrozza lungo il corso • Vespro: la visita all’amica malata la sfilata notturna delle carrozze • Notte: i giochi in un salotto aristocratico

  36. G. Parini, Il Giorno I, Alla Moda A te vezzosissima Dea, che con sì dolci redine oggi temperi, e governi la nostra brillante gioventù, a te sola questo piccolo Libretto si dedica, e si consagra. Chi è che te qual sommo Nume oggimai non riverisca, ed onori, poichè in sì breve tempo se' giunta a debellar la ghiacciata Ragione, il pedante Buon Senso, e l'Ordine seccagginoso tuoi capitali nemici, ed hai sciolto dagli antichissimi lacci questo secolo avventurato? Piacciati adunque di accogliere sotto alla tua protezione, che forse non n'è indegno, questo piccolo Poemetto. Tu il reca su i pacifici altari ove le gentili Dame, e gli amabili Garzoni sagrificano a se medesimi le mattutine ore. Di questo solo egli è vago, e di questo solo andrà superbo e contento. Per esserti più caro egli ha scosso il giogo della servile rima, e se ne va libero in Versi Sciolti, sapendo, che tu di questi specialmente ora godi, e ti compiaci. Esso non aspira all'immortalità, come altri libri, troppo lusingati da' loro Autori, che tu, repentinamente sopravvenendo, hai seppelliti nell'oblìo. Siccome egli è per te nato, e consagrato a te sola, così fie pago di vivere quel solo momento, che tu ti mostri sotto un medesimo aspetto, e pensi a cangiarti, e risorgere in più graziose forme. Se a te piacerà riguardare con placid'occhio questo Mattino forse gli succederanno il Mezzogiorno, e la Sera; e il loro Autore si studierà di comporli, ed ornarli in modo, che non men di questo abbiano ad esserti cari.

  37. Il Mattino 1763, vv. 1-15 Giovin Signore, o a te scenda per lungo Di magnanimi lombi ordine il sangue Purissimo celeste, o in te del sangue Emendino il difetto i compri onori E le adunate in terra o in mar ricchezze Dal genitor frugale in pochi lustri, Me Precettor d'amabil Rito ascolta. Come ingannar questi nojosi e lenti Giorni di vita, cui sì lungo tedio E fastidio insoffribile accompagna Or io t'insegnerò. Quali al Mattino, Quai dopo il Mezzodì, quali la Sera Esser debban tue cure apprenderai, Se in mezzo agli ozj tuoi ozio ti resta Pur di tender gli orecchi a' versi miei.

  38. «Di magnanimi lombi ordine il sangue» (Matt. I v. 2) Nel secondo verso appare per la prima volta una situazione ritmica a cui Parini ricorre in misura crescente nell’elaborazione del Giorno: «l’endecasillabo con sinalefe in settima sede, in cui figuri, come secondo elemento [della sinalefe], una parola, piana o sdrucciola, iniziante per vocale accentata […], dove lo stacco rilevato dall’accento della vocale (una sorta di dialefe nella sinalefe) impenna il verso e lo tiene verticalmente sospeso: un attimo, per poi riprendere con più ampio respiro o per scendere rapido alla chiusa» (Isella, L’officina, p. 51). La figura giova qui a mettere il rilievo il sostantivo ordine, a distanza dall’aggettivo lungo, impiegato nel senso latino di ‘successione’.

  39. Mattino I, 1-4: la tecnica dell’enjambement + iperbatoGiovinSignore, o a te scenda per lungoDi magnanimi lombi ordine il sanguePurissimo celeste, o in te del sangueEmendino il difetto i compri onori «Il ritmo è tutto orientato nel senso del movimento, del rapporto tra gli endecasillabi. Ma la caduta dell’unità-verso non porta con sé anche quella dello scatto che dà al ritmo la fine del verso. […] Lo sforzo maggiore è però sopportato da un’istituzione tipicamente pariniana, come l’inversione al limite, che […] nasce dalla soppressione dell’enjambement dellacasiano, di nome più aggettivo, troppo logorato dalla tradizione pastorale. In questa sede l’inversione si attua naturalmente con un movimento di clausola […] dove sia l’inserzione del verbo che quella dell’aggettivo bloccano il frammento, e rinnovano, riscattano la sua personalità ritmica» (P. Citati, Per una storia del Giorno, 1954, pp. 16-17).

  40. Il Mattino 1763, vv. 33-52 Sorge il Mattino in compagnìa dell'Alba Innanzi al Sol che di poi grande appare Su l'estremo orizzonte a render lieti Gli animali e le piante e i campi e l'onde. Allora il buon villan sorge dal caro Letto cui la fedel sposa, e i minori Suoi figlioletti intepidìr la notte; Poi sul collo recando i sacri arnesi Che prima ritrovàr Cerere, e Pale, Va col bue lento innanzi al campo, e scuote Lungo il piccolsentier da' curvi rami Il rugiadoso umor che, quasi gemma, I nascenti del Sol raggi rifrange. Allora sorge il Fabbro, e la sonante Officina riapre, e all'opre torna L'altro dì non perfette, o se di chiave Ardua e ferrati ingegni all'inquieto Ricco l'archeassecura, o se d'argento E d'oro incider vuol giojelli e vasi Per ornamento a nuove spose o a mense.

  41. Il Mattino 1763, vv. 53-76 Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo, Qual istrice pungente, irti i capegli Al suon di mie parole? Ah non è questo, Signore, il tuo mattin. Tu col cadente Sol non sedesti a parca mensa, e al lume Dell'incerto crepuscolo non gisti Ieri a corcarti in male agiate piume, Come dannato è a far l'umile vulgo. A voi celeste prole, a voi concilio Di Semidei terreni altro concesse Giove benigno: e con altr'arti e leggi Per novo calle a me convien guidarvi. Tu tra le veglie, e le canore scene, E il patetico gioco oltre più assai Producesti la notte; e stanco alfine In aureo cocchio, col fragor di calde Precipitose rote, e il calpestìo Di volanti corsier, lunge agitasti Il queto aere notturno, e le tenèbre Con fiaccole superbe intorno apristi, Siccome allor che il Siculo terreno Dall'uno all'altro mar rimbombar feo Pluto col carro a cui splendeano innanzi Le tede de le Furie anguicrinite.

  42. Il MattinoII, vv. 1-20 Sorge il Mattino in compagnìa dell'Alba Dinanzi al Sol che di poi grande appare Su l'estremo orizzonte a render lieti Gli animali e le piante e i campi e l'onde. Allora il buon villan sorge dal caro Letto cui la fedelmoglie, e i minori Suoi figlioletti intepidìr la notte; Poi sul dorso portandoi sacri arnesi Che prima ritrovò Cerere oPale, Move seguendo i lenti bovi, e scuote Lungo il piccolsentier da' curvi rami Il rugiadoso umor che di gemme al paro La nascentedel Sol lucerifrange. Allora sorge il Fabbro, e la sonante Officina riapre, e all'opre torna L'altro dì non perfette, o se di chiave Ardua e ferrati ingegni all'inquieto Ricco l'archeassecura, o se d'argento E d'oro incider vuol giojelli e vasi Per ornamento a nuove spose o a mense.

  43. Il MattinoII, vv. 21-44 Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo, Qual istrice pungente, irti i capegli Al suon di mie parole? Ah il tuo mattino Signor, questo non è. Tu col cadente Sol non sedesti a parca cena, e al lume Dell'incerto crepuscolo non gisti Ieri a posar qual ne’ tuguri suoi Entro a rigide coltri il vulgo vile. A voi celeste prole, a voi concilio Almo di Semidei altro concesse Giove benigno: e con altr'arti e leggi Per novo calle a me guidarvi è d’uopo. Tu tra le veglie, e le canore scene, E il patetico gioco oltre più assai Producesti la notte; e stanco alfine In aureo cocchio, col fragor di calde Precipitose rote, e il calpestìo Di volanti corsier, lunge agitasti Il queto aere notturno, e le tenèbre Con fiaccole superbe intorno apristi, Siccome allor che il Siculo terreno Dall'uno all'altro mar rimbombar feo Pluto col carro a cui splendeano innanzi Le tede de le Furie anguicrinite.

  44. Mezzogiorno (vv. 1376) vv. 1-1194: «Ardirò ancor tra i desinari illustri… che ancor l’antico strepito dinota» vv. 1195-1219, «Già de le fere, e degli augelli il giorno… che da tutti servito, a nullo serve» vv. 1220-1376, «Già di cocchi frequente il corso… splende… per entro al tenebroso umido velo» Meriggio (vv. 1178) vv. 1-1178: «Ardirò ancor fra i desinari illustri… che ancor l’antico strepito dinota» Vesprovv. 1-25, «Ma de gli augelli e de le fere il giorno… che da tutti servito, a nullo serve» ?

  45. Il Mezzogiorno, vv. 1-6 Ardirò ancor tra i desinari illustri Sul Meriggio innoltrarmiumil Cantore, Poichè troppa di te cura mi punge, Signor, ch'io spero un dì veder maestro E dittator di graziosi modi All'alma gioventù che Italia onora. Purg. XXIV 58-60 Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne.

  46. Il Mezzogiorno, vv. 250-267 Forse vero non è; ma un giorno è fama, Che fur gli uomini eguali; e ignoti nomi Fur Plebe, e Nobiltade. Al cibo, al bere, All'accoppiarsi d'ambo i sessi, al sonno Un istinto medesmo, un'egual forza Sospingeva gli umani: e niun consiglio Niuna scelta d'obbietti o lochi o tempi Era lor conceduta. A un rivo stesso, A un medesimo frutto, a una stess'ombra Convenivano insieme i primi padri Del tuo sangue, o Signore, e i primi padri De la plebe spregiata. I medesm'antri Il medesimo suolo offrieno loro Il riposo, e l'albergo; e a le lor membra I medesmi animai le irsute vesti. Sol'una cura a tutti era comune Di sfuggire il dolore, e ignota cosa Era il desire agli uman petti ancora.

  47. Il Mezzogiorno, vv. 517-556 […] Or le sovviene il giorno, Ahi fero giorno! allor che la sua bella Vergine cuccia de le Grazie alunna, Giovenilmente vezzeggiando, il piede Villan del servo con l'eburneo dente Segnò di lieve nota: ed egli audace Con sacrilego piè lanciolla: e quella Tre volte rotolò; tre volte scosse Gli scompigliati peli, e da le molli Nari soffiò la polvere rodente. Indi i gemiti alzando: aita aita Parea dicesse; e da le aurate volte A lei l'impietosita Eco rispose: E dagl'infimi chiostri i mesti servi Asceser tutti; e da le somme stanze Le damigelle pallide tremanti Precipitàro. Accorse ognuno; il volto Fu spruzzato d'essenze a la tua Dama; Ella rinvenne alfin: l'ira, il dolore L'agitavano ancor; fulminei sguardi Gettò sul servo, e con languida voce Chiamò tre volte la sua cuccia: e questa Al sen le corse; in suo tenor vendetta Chieder sembrolle: e tu vendetta avesti Vergine cuccia de le grazie alunna. L'empio servo tremò; con gli occhi al suolo Udì la sua condanna. A lui non valse Merito quadrilustre; a lui non valse Zelo d'arcani uficj: in van per lui Fu pregato e promesso; ei nudo andonne Dell'assisa spogliato ond'era un giorno Venerabile al vulgo. In van novello Signor sperò; chè le pietose dame Inorridìro, e del misfatto atroce Odiàr l'autore. Il misero si giacque Con la squallida prole, e con la nuda Consorte a lato su la via spargendo Al passeggiere inutile lamento: E tu vergine cuccia, idol placato Da le vittime umane, isti superba.

  48. Il Mezzogiorno, v. 533: Precipitaro… «La collocazione enfatica del verbo a inizio verso, staccato in enjambement dal soggetto, determina un parallelismo oppositivo con i vv. 530-31 («i mesti servi / asceser tutti») ed è parte di un effetto cumulativo che coinvolge i sette versi successivi («Fu spruzzato», «Ella rinvenne», «L’agitavano», «Chiamò», «Al sen le corse», «Chieder sembrolle»), contribuendo alla concitazione narrativa in modo solidale con la frammentazione metrico-sintattica. Da notare, agli stessi fini, la polarità metrica che si instaura coi successivi vv. 543-548, dove la serialità anaforica concerne i secondi emistichi («A lui non valse», «a lui non valse», «in van per lui», «In van novello»). A partire dall’episodio della vergine cuccia, Parini si avvarrà sempre più spesso delle risorse enfatiche connesse alla seriale frammentazione metrico-sintattica degli endecasillabi» (M. Tizi)

  49. E ¦ tu ¦ ver¦ gi¦ ne ¦ cuc¦cia,^i¦ dol ¦ pla¦ca ¦ to 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11Da ¦ le ¦ vit ¦ ti ¦ me^u¦ ma ¦ne,^i¦ sti ¦ su¦per¦ba 1 2 3 4 5 67 8 9 10 11

  50. Il Mezzogiorno, vv. 1220-1254 Già di cocchi frequente il Corso splende: E di mille che là volano rote Rimbombano le vie. Fiero per nova Scoperta biga il giovine leggiadro Che cesse al carpentier gli avìti campi Là si scorge tra i primi. All'un de' lati Sdrajasi tutto: e de le stese gambe La snellezza dispiega. A lui nel seno La conoscenza del suo merto abbonda; E con gentil sorriso arde e balena Su la vetta del labbro; o da le ciglia, Disdegnando, de' cocchi signoreggia La turba inferior: soave intanto Egli alza il mento, e il gomito protende; E mollemente la man ripiegando, I merletti finissimi su l'alto Petto si ricompon con le due dita. Quinci vien l'altro che pur oggi al cocchio Dai casali pervenne, e già s'ascrive Al concilio de' numi. Egli oggi impara A conoscere il vulgo, e già da quello Mille miglialontan sente rapirsi Per lo spazio de' cieli. A lui davanti Ossequiosi cadono i cristalli De' generosi cocchi oltrepassando; E il lusingano ancor perchè sostegno Sia de la pompa loro. Altri ne viene Che di compro pur or titol si vanta; E pur s'affaccia, e pur gli orecchi porge, E pur sembragli udir da tutti i labbri Sonar le glorie sue: Mal abbia il lungo De le rote stridore, e il calpestìo De' ferrati cavalli, e l'aura, e il vento Che il bel tenor de le bramate voci Scender non lascia a dilettargli 'l core.

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