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IN VINO VERITAS

IN VINO VERITAS. INDICE Le religioni orientali: Cina e Giappone Fenici e Assiri Egitto Islam Ebraismo Usi e costumi nell’Antico e Nuovo Testamento Cristianesimo. LE RELIGIONI ORIENTALI: CINA E GIAPPONE.

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Presentation Transcript


  1. IN VINO VERITAS

  2. INDICE • Le religioni orientali: Cina e Giappone • Fenici e Assiri • Egitto • Islam • Ebraismo • Usi e costumi nell’Antico e Nuovo Testamento • Cristianesimo

  3. LE RELIGIONI ORIENTALI: CINA E GIAPPONE Il processo di fermentazione, che sacrifica minuscoli esseri viventi perché il succo d’uva si trasformi in vino, impedisce ai credenti delle religioni nate in India di bere quella bevanda che altre religioni non esitano definire “nettare divino”. Sono due le ragioni che giustificano la proibizione: • la prima mette in guardia dallo stato di ebbrezza capace di sottrarre all’uomo il controllo del suo corpo. • La seconda richiama il comandamento dell’ahimsa, in quanto l’indispensabile processo di fermentazione legato alle sostanze alcoliche di fatto causerebbe la morte di esseri animati. Conseguentemente i liquori, il vino, le bevande super alcoliche e le birre alcoliche sono proibiti dall’induismo, dal buddismo e dal jainismo.

  4. CINA In Cina era diffuso il proverbio “non è il vino che ubriaca ma è l’uomo che è debole”questo dimostra che anche li era conosciuto l’uso del vino. Secondo i leggendari testi della dinastia dei ”re saggi” (intorno al III millennio a.C.) la vigna sarebbe giunta nel Celeste impero dal Mar Caspio, lungo le strade delle carovane. • GIAPPONE L’oriente ha istituto con il riso un rapporto equivalente a quello tipico dell’occidente con il pane.Dal riso gli abitanti dell’Est traggono un’altra domanda, frutto della sua fermentazione, il sakè. Ma se spostiamo l’attenzione alla stragrande maggioranza dei paesi asiatici, notiamo uno scarso consumo di alcolici, siano essi derivati dalla fermentazione di cereali oppure dall’uva: la dottrina dell’haisma, la non violenza impone il rispetto per ogni forma di vita, anche la più minuscola e invisibile. Ragione per cui si evita il consumo di ogni bevanda alcolica.

  5. FENICI E ASSIRI Le libagioni sono una forma cultuale che prevede tra l’altro, il gesto simbolico di versare vino (o anche altre bevande) sull’altare, sul fuoco o sulle vittime. Il vino di libagione, quindi, riveste un carattere di sacralità ben attestato in moltissime religioni. Sia in Oriente che,ad esempio,in Israele si conoscono riferimenti precisi a questa pratica liturgica. Nel Vicino Oriente un popolo del passato si distinse positivamente nella diffusione del vino. Sappiamo che i fenici lo fecero conoscere,commerciandolo lungo tutto il bacino del Mediterraneo. Lo stesso popolo era solito offrirlo anche alle divinità. Essi coltivavano olivi e viti e agli dèi sacrificavano sostanze alimentari che si spandevano e si bruciavano sugli altari. Il vino era un elemento cultuale di primo piano anche per i Fenici. Anche gli Assiri offrivano bevande fermentate alle divinità, cosi pure in Estremo Oriente, infatti, ci sono stati ritrovamenti del I millennio a.C. che documentano la pratica di utilizzare il vino durante i sacrifici.

  6. L’EGITTO L’antico Egitto conosceva bene il vino ed era particolarmente attento alla cura e alla diffusione di questa bevanda . La divinità legata al vino era Osiris: da lui l’uomo avrebbe appreso direttamente la coltivazione della vite, la tecnica per ricavarne la bevanda e infine la gioia del bere. Il vino è legato dunque al mondo sovraumano: più che una conquista umana la teologia egiziana lo vede come dono della gratuità divina. Per comprendere meglio la ricchezza simbolica della natura del vino in Egitto, dobbiamo volgere l’attenzione a quelle numerose testimonianze che fanno del vino un richiamo strettamente connesso con il sangue.

  7. Il mito detto Leggenda del disco alato mostra, ad esempio, che il vino non era altro che il sangue dei nemici di Ra che Horus aveva vinto: l’acqua che era divenuta rossa per il sangue venne chiamata da allora “succo di grappoli di vino”. Il vino sembra cosi legarsi direttamente alla vita: il suo colore rosso richiama il colore del sangue e le morti in battaglia suonano come una sorte di tragica vendemmia. La presenza nelle tombe reali della XIX e della XX dinastia di numerosi temi che rimandano alla vite e al vino testimoniano il valore cultuale attribuito dagli egiziani a questa bevanda. Ritrovamenti presso i sarcofagi della XVIII dinastia (xv sec. a.C.) presso la tomba di Nakt confermano la credenza che il vino fosse ricavato direttamente dal corpo o dal sangue di divinità o di semidèi: bere vino quindi nell’antico Egitto significava nutrirsi della divinità e lasciare vino nelle tombe poteva essere l’augurio per il defunto di sedere a un banchetto divino in presenza delle stesse divinità nell’aldilà.

  8. ISLAM • Il valore negativo del vino nell’Islam è chiaro e si realizza con una triplice e progressiva condanna: • Un primo importante richiamo contro il vino è presente nella sura 2,219 a cui segue il disprezzo provato per chi si accosta alla preghiera in una condizione ritenuta inopportuna: ”Non venite ubriachi alla preghiera“(sura 4,43). • Del resto il Corano è contrario a ogni forma di estremismo, anche nel mangiare e nel bere, parliamo di cibi e bevande lecite, il muslim è chiamato a una sana moderazione. • Nella sura 5,90-91 leggiamo invece il divieto assoluto di ogni bevanda alcolica: non importa, quindi, la gradazione raggiunta: sono vietati la birra alcolica come tutti i super alcolici “ O voi che credete, in verità il vino, il gioco d’azzardo, le pietre idolatriche, le frecce divinatorie sono immonde opere di satana. Evitatele …”(sura 5,90-91).

  9. L’Islam insegna che,durante l’esperienza terrena ,l’uomo può trovare la gioia e la convivialità senza ricorrere all’uso di alcolici. • Eppure sono presenti altri testi che suggerirebbero di collocare la nostra bevanda in un quadro diverso. Già il passo della sura 16,17 parrebbe consentire una bevanda leggermente alcolica ricavata dalla fermentazione di datteri: “Pure dai frutti dei palmeti e delle vigne ricavate bevanda inebriante e cibo eccellente. Ecco un segno per coloro che capiscono”. Offrendo ai lettori l’immagine del paradiso musulmano, la sura 47,15 descrive minuziosamente e con un linguaggio molto concreto lo scenario che il muslim sogna di raggiungere al termine della vita terrena: ”ruscelli di un vino delizioso a bersi“, una prospettiva confermata anche dai versetti della sura 83,25-28: ”Berranno un nettare puro, sugellato con un sugello di muschio che vi aspirono coloro che ne sono degni…“.

  10. EBRAISMO Il vino appare per la prima volta all’interno di un quadro che ne mostra solo gli effetti negativi. Infatti , Gn9,20-27 ci racconta i primi passi compiuti da Noè subito dopo il diluvio universale: “ora Noè coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna, avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda. Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori “. La conseguenza dell’ubriacatura di Noè è la maledizione dei figli di Cam (non va scordato che la terra promessa era chiamata Canaan in qualche misura deve il suo nome al vino: Canaan è il paese dove si rifugia Cam, il figlio di Noè, l’Hut-Napishtim biblico allontanato dalla famiglia per aver deriso il padre ubriaco.)

  11. Seguendo il racconto di Gen 19,30-38 scopriamo che le due figlie di Lot offrono al padre del vino. Scopo delle due figlie fargli perdere il controllo per ottenere una discendenza da lui, per superare le condizioni in cui si erano venuti a trovare. Nei libri dei profeti leggiamo moniti piuttosto severi contro l’abuso del vino. Essi mirano a evitare un consumo smodato di vino e quindi il ripetersi degli spiacevoli episodi genesiaci. Isaia ha parole durissime: ”Guai a coloro che si alzano presto al mattino e vanno in cerca di bevande inebrianti e si attardano alla sera accesi in volto dal vino “ (Is5,11). Non da meno Amos (Am6,6) e il profeta Osea che considera il vino alla stessa stregua di una droga: ”il vino e il mosto tolgono il senno”(Os4,11). Il rifiuto di servirsi del frutto della vite può essere giustificato anche da altre ragioni . Talvolta l’astinenza dalla bevanda fermentata vuole solo mettere in risalto la sacralità della persona che intende rifiutare il vino: è il tentativo di far emergere l’essere “altro“, il “separato” rispetto alla comunità. Il caso di alcuni testi come Nm 6,1-4 e Gdc13,1-7, nel quale quest’ultimo testo troviamo la storia di Sansone e il suo voto di non bere vino .

  12. Il contesto dove collocare questi brani è quindi rituale e sacro: siamo in presenza di voti religiosi ,di scelte particolari ,di stili di vita improntati alla continenza per essere vigili e presenti davanti a Dio (Pr 23,31-35). Anche al personale liturgico è spesso proibito il consumo di vino (Lv10,8-11), una restrizione confermata anche in Ez44,21. Il libro dei Proverbi è un testo che diffusamente avverte sui pericoli derivanti dall’abuso del vino (Pr31,4). Per evitare gli effetti disastrosi presentati da Dt21,18-21, dove si mostrano le conseguenze di un figlio ribelle perché “bevitore”, altre brani mirano a individuare l’esatto rapporto che l’uomo deve creare con il vino. Sir31,25-30, è un inno alla moderazione per quanti ritengono di saper vincere gli effetti negativi che il vino pur contiene: ”Non fare il forte con il vino ,perché ha mandato molti in rovina.La fornace prova il metallo nella tempera, così il vino i cuori in una sfida di arroganti”.

  13. La saggezza di questo testo è condivisa da altri documenti biblici, che presentano il vino all’interno dei libri sapienziali. Addirittura è la sapienza stessa che prepara il vino. Il vino può essere metafora di gioia e di amore come nel libro dell’A.T. il Cantico dei Cantici, dove lo scrittore sacro utilizza il vino per rendere con parole umane la dolcezza e l’intensità di una relazione, il calore e la prelibatezza di un incontro. Ma il dolore nell’A.T. viene reso manifesto con l’assenza della bevanda fermentata: ”Non si beve più il vino tra i canti, la bevanda inebriante è amara per chi la beve “(Is24,11). L’A.T. offre anche un’immagine strettamente legata al rito religioso Diversi versetti parlano di un vino di libagione (E s29,40;Nm15,4-10;Dt14,26). L’uso liturgico del vino è sottolineato anche dal profeta Osea , il quale preannunciando la catastrofe che colpirà il regno del Nord egli disegna l’impossibilità di offrire in dono a Dio il vino: ”Non faranno più libagioni di vino al Signore i loro sacrifici non gli saranno graditi”(Os9,4).

  14. Tra i riti più importanti c’è la pasqua degli ebrei, che comporta una sospensione dello scorrere del tempo per rivivere con forza gli avvenimenti dell’uscita dall’Egitto. Nella celebrazione cultuale il vino occupa un posto centrale . Sulla tavola accuratamente preparata il bicchiere riservato a ognuno dei presenti viene riempito quattro volte. Il primo bicchiere si beve durante la benedizione, il secondo durante la narrazione degli avvenimenti e lo si beve mangiando le azzime e le erbe amare.

  15. La Pasqua ebraica

  16. LA COLTURA DELLA VITE COME METAFORA ESISTENZIALE Il vino, preferibilmente rosso, assume particolare rilevanza per la celebrazione del sabato ebraico (o shabbat) pari almeno alla funzione che questo giorno sacro assume come divisione sacrale del tempo cosmico. La santificazione del Sabato dunque, con la sua essenziale e suggestiva ritualità, trova il suo fondamento nel preciso comandamento del Pentateuco, i cinque libri che costituiscono la Torà. La simbologia del rito sacro di santificazione del Sabato con la beracah (benedizione) sul vino affonda le sue radici nell‘ insegnamento tradizionale tramandatoci dalla Bibbia. Il "Kiddush" è nome con il quale si indica appunto la benedizione e la speciale preghiera con cui la sera del venerdì ci si prepara al successivo giorno di riposo da dedicare esclusivamente alle cose spirituali: esso è stato codificato dai Maestri della Legge minuto per minuto.

  17. Il vino, per tale speciale cerimonia, si deve riempire sino all'orlo di un bicchiere (di solito un apposito elegante calice istoriato con caratteri ebraici), dovrebbe essere rosso e di alta qualità. In casi eccezionali è permesso succo d'uva rosso non ancora fermentato. Quest'ultimo particolare induce a pensare che in epoca biblica l'uva più diffusa fosse quella nera; il sinonimo “sangue d'uva” usato fa infatti pensare che la scelta dell’uva nera sia legata alla simbologia del colore del mosto che se ne ricava. I saggi maestri del giudaismo legarono dunque la benedizione del sabato al bicchiere di vino rosso. Ma il bere sacro non è esclusiva del giudaismo e non si limita al rito del venerdì sera: la sua diffusione è ormai universale e le occasioni solenni o meno in cui si deve bere del vino si sono moltiplicate in epoca moderna!

  18. Metafora esistenziale e religiosa la coltura della vite era diffusissima in tutta l’area siro-palestinese culla del nostro monoteismo etico. Questa notizia ci viene confermata da Sinueh , quell'ufficiale egiziano esiliatosi in Asia, quando afferma che "in Palestina il vino è più diffuso dell'acqua"! Probabilmente Sinueh intendeva dire che l'acqua era tanto scarsa che il vino era più abbondante ma indirettamente conferma che la coltura della vite era molto diffusa. Con queste lunghissime radici la cultura del vino non poteva perdere di importanza con il passare dei secoli, ed infatti, anche nella nostra epoca il succo d'uva fermentato continua a rappresentare qualcosa di speciale non paragonabile a nessun altra bevanda. Il vino e solo il vino è dunque la bevanda sacra e piacevole nello stesso tempo. L'archeologia anche in questo caso ha confermato il racconto biblico e recenti scavi hanno dimostrato che la vinificazione era diffusa nella regione di Hebron .

  19. Gli esploratori inviati da Mosè nella terra di Canaan giunsero proprio nella valle di Eshcol e riportarono indietro, come prova della fertilità del suolo, un immenso grappolo d'uva, notissimo nell‘ iconografia ebraica: due uomini che portano appeso ad una stanga un immenso grappolo: una descrizione iperbolica ma che rende perfettamente la realtà dei luoghi.

  20. Vari termini designano il vino nella Bibbia ebraica. Il termine più diffuso “ YAYIN”( ןיי ) ricorre ben 141 volte nella Torà ed è un vocabolo probabilmente non semitico ma forse di origine caucasica: ha il significato letterale di “effervescente”. Un'altra parola con cui nella Bibbia si indica questa bevanda è “ASIS” dalla radice ebraica “asas” che letteralmente ha il significato di “pressare” o “schiacciare“. L'uso di questo termine è specifico ed indica il succo dell'uva schiacciata o pressata e ,probabilmente, anche fermentata. Nelle cerimonie più importanti come matrimoni, maggiore età religiosa (Bar mitzvah) etc…il vino veniva mescolato con l‘ acqua e con l’aggiunta di miele e altri aromi. Ciò conferiva maggiore solennità agli avvenimenti ma c'è il sospetto maligno che l'aggiunta di acqua servisse ad aumentare la quantità di vino per soddisfare, a poco prezzo, tutti gli invitati. Comunque anche in quei tempi l’annacquamento del vino era considerato negativamente se non proprio una truffa. In epoca romana, invece, divenne uso comune aggiungere acqua e miele al vino ma l'usanza era giustificata dal fatto che il vino era molto forte tannico e quindi poco bevibile senza diluizione ed aromatizzazione.. Ciò non toglie che la pratica divenne di moda, quando invece si trattava di aumentare i guadagni del commercio del vino.

  21. Sembra superfluo sottolineare che in questi passi della Bibbia ci si dovesse riferire all'uva nera anche perché sembra che in periodo biblico l'uva bianca fosse sconosciuta. Probabilmente l'uva bianca da vino è frutto di innesti successivi mentre la vite coltivata nella Palestina del tempo biblico doveva essere un vitigno piuttosto forte, resistente alla siccità e molto simile alla vite selvatica. Però il termine più generico usato nella Torà per indicare qualunque bevanda fermentata, (quindi anche birra, sia quella derivata dalla fermentazione dell'orzo che quella dei datteri , del melograno, della palma delle mele etc.) è shekar (ר כ ש ) A partire dalla traduzione della Bibbia in greco (quella dei settanta) viene usato il termine greco “oinos” per indicare tutti i tipi di vino e “gleuokos” per indicare il mosto da fermentare o in fermentazione ed il vino dolce, novello.

  22. Naturalmente un libro come la Bibbia se da un lato apprezza molto il vino e lo fa assurgere a simbolo della creazione non poteva sottovalutare gli effetti negativi e le insidie di un uso smodato di tale bevanda. Una vita benedetta da Dio e cioè colma di tutti i doni del Creatore comprende quindi abbondanza di vino di olio di grano, tutti prodotti cui viene riconosciuta una funzione assolutamente vitale voluta dal Signore nel suo piano per gli uomini. Salomone, nella sua saggezza, menziona il vino tra i doni della creazione (Proverbi 104,15 ) “vino che rallegra il cuore degli uomini”, seguito dall'olio “che fa risplendere il volto” (olio cosmetico, protettivo della pelle, ma di uso festivo) . L'abbondanza di vino è una benedizione e per contrasto, il venir meno della benedizione può comportare penuria di olio, vino e pane;

  23. Mangiare e bere sono segni attualissimi di comunione, di ospitalità, di amicizia. Amicizia che si accorda o che si riceve con l’invito a mangiare ed a bere insieme; Ma le radici di questa simbologia universale sono anch’esse nella Bibbia. All’ ospite viene offerta la tutela dei suoi diritti e precisi doveri con la simbologia delle bevande che gli vengono offerte. L'ospite che viene accolto recepisce, per così dire, un diritto sui beni della famiglia che lo ospita e ne diventa quasi un congiunto temporaneo. Espressione di questo momentaneo apparentamento il pasto è consumato in comune che è all'origine di un legame e di una solidarietà tra commensali tutta particolare e che mantiene ancora tutta la sua sacralità.

  24. USI E COSTUMI NELL’ANTICO E NUOVO TESTAMENTO

  25. LE VITI Secondo Gen. 9,20 Noe fu il primo a coltivare la vite dopo il diluvio. Più tardi ogni Ebreo desiderava avere la sua vite. La si coltivava su pergolati accanto alla casa e forniva ombra durante la lunga estate.(I Re 5,5). Il possedere una vigna era segno di vita sedentaria. Perciò questa pratica era rifiutata dai Recabiti, che volevano condurre una vita nomade.(Ger.35). Per un villaggio piantare una vigna costituiva un buon investimento. Nelle regioni in cui la vite cresceva bene, era tuttavia possibile acquistare vigne da proprietari terrieri non residenti, i piccoli agricoltori si trasformavano in mezzadri, che ricevevano in pagamento una parte di quanto producevano.

  26. (I Re 21,6;Mt.20,1;Lc 20,9-10). La coltivazione della vite divenne quindi un’impresa che richiedeva grossi capitali. Era gia ben sviluppata quando Mosè invio spie nella terra di Caanan (Num.13,23). L’uomo, il cui bestiame ha pascolato nella vigna altrui, deve dare l’indennizzo con il meglio della sua vigna (Es.22,4).Dt 20,6 esenta dal servizio militare colui che ha piantato una vigna, ma non ne abbia goduto il frutto. Non si poteva neppure tornare indietro a racimolare nella propria vigna: questo era riservato al forestiero, all’orfano e alla vedova (Lv.19,10;Dt24,21). Durante l’anno sabbatico e durante l’anno del giubileo non si potava nella vigna e non si vendemmiava; i frutti che nascevano spontaneamente potevano essere colti dal proprietario e da chiunque, secondo le necessità di ogni giorno. (Es23,10;Lv25,3-11).

  27. PIANTARE UNA VIGNA Is. (5,1-2) descrive il procedimento necessario per piantare una vigna: “il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle… Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti; vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino” (Mt 21,33). La vigna era piantata sui fianchi della collina dove c’èra un buon sistema di scolo e i grappoli erano ben esposti al sole. Prima si terrazzava il terreno, utilizzando le pietre che sarebbero state di intralcio alla coltivazione, e anche per salvare il suolo durante le forti piogge. L’appezzamento era poi circondato con un muro e un fossato: la terra ricavata dallo scavo costituiva le fondamenta del muro. In cima al muro era posta una siepe di spine per impedire agli animali selvatici di entrare e arrecare danni ( Pri 24, 30-31; Cantico dei Cantici 2,15 ). Il salmo 80,13 accenna a persone che potrebbero razziare la vigna per rubare il frutto; la legge permetteva che si raccogliessero i grappoli, ma non di asportarli con un contenitore (Lv 19-10, Dt 23,25). Il terreno era preparato rivoltandolo con uno zappone (Is 5,2).

  28. Infine si costruiva una torre che serviva come residenza estiva, un luogo in cui la famiglia poteva dimorare durante l’estate, al tempo della vendemmia. Costruirla era un’impresa costosa. Gesù un giorno raccontò la storia di un uomo a cui vennero a mancare i soldi durante la costruzione di una torre (Lc 14,28-30). Il piano superiore dalla torre era usato come postazione di vedetta (Is 5,2). Se il proprietario non poteva permettersi di costruire una torre, gli operai alzavano una tenda.

  29. I germogli erano piantati a una distanza di circa tre metri e mezzo l’uno dall’altro per consentire ai rami di allargarsi. Se la vigna era su un terreno piano, tra un filare e l’altro si lasciava uno spazio sufficiente per passare con l’aratro. Alcune qualità di viti erano fatte correre sul terreno, mentre altre erano sostenute con tralicci costituiti da pali forcuti, oppure guidati sui fichi ,da cui l’espressione “abitare sotto la propria vigna e sotto il proprio fico”(IRe 5,5;Mi 4,4;Zc 3,10;IMac14,12) Piantate le viti, durante i mesi invernali si procedeva alla potatura con un falcetto apposito (Gioele 4,10), per eliminare i rami più deboli, quelli spezzati e quelli malati, in modo che la vite producesse i grappoli migliori. Questo procedimento era chiamato “pulitura delle viti”. Noi veniamo potati e ripuliti dall’insegnamento che Gesù ci ha dato (Gv 15,3). I tralci buoni che però non rendono sono sradicati dal terreno (Gv 15,2) e posti su una posizione migliore, più adatta per la produzione di buoni frutti.

  30. LA VENDEMMIA La vendemmia comincia a luglio, ma dura fino a settembre. Tutto il villaggio si sposta nelle vigne ( Giudici 9,27) perché il lavoro deve essere portato a termine in breve tempo. La raccolta dell’uva ai tempi della Bibbia era un lavoro duro, ma era accompagnata da canti, danze e festeggiamenti. I festeggiamenti erano parte talmente integrante della vendemmia che la loro mancanza sarebbe stata un segno della condanna di Dio (Is16,10). Tutti portavano grandi ceste (Ger 6,9) nelle quali si ponevano i grappoli. Alcuni grappoli venivano mangiati freschi, o spremuti per ottenere succo fresco d’uva. Nell’interpretazione del sogno data da Giuseppe, il coppiere spremeva grappoli d’uva nella coppa del faraone (Gn 40,11). Il succo fresco era usato a scopi lassativi. Una parte del succo era usata anche per fare vino, conosciuto con il termine di “mosto” (Os 4,11). Altra uva era fatta essiccare per ottenere l’ uva passa. I grappoli venivano distesi in un angolo della vigna, rivoltati ogni giorno e spruzzati di olio d’oliva. In diverse occasioni Davide ricevette grandi quantitativi di uva passa ( 1 Sam 25,18; 2 Sam 16,1; Cr12,41) poiché si trattava di un elemento essenziale della dieta. La produzione di uva era molto abbondante e solo una parte di questa veniva utilizzata per fare uva passa. La maggior parte era pigiata per far il vino.

  31. IL TINO Il tino era una cisterna scavata nella roccia, e nella sua parte inferiore veniva praticato un foro. Il succo usciva da tale foro e si raccoglieva in una botte o in altri tipi di contenitori. Diverse persone stavano contemporaneamente nel tino per pigiare l’uva con i piedi tra grandi risate di divertimento. L’inizio di Is65,8: “Come quando si trova succo in un grappolo si dice: Non distruggerlo, perché vi è qui una benedizione”, potrebbe essere parte di una delle canzoni cantate durante la pigiatura. Come Isaia, anche Geremia colloca il giudizio in un tempo che manca la gioia e il canto durante la pigiatura del vino (Ger 48,33). L’uomo che pigiava da solo perché tutti i suoi compagni erano partiti (Is 63,3) costituisce un’immagine assai triste.

  32. Un’immagine del giudizio ancora più violenta è quella della gente posta nel tino di Dio e pigiata. I vestiti di Dio sono coperti di sangue invece che dal rosso succo dell’uva(Is 63,3-6; Ap19,13-15). Una parte del succo dell’uva veniva fatto bollire per ottenere un denso sciroppo chiamato dibs. Forse è ciò che generalmente nella Bibbia è chiamato miele. Infatti fino ai tempi della dominazione romana non si tenevano le api negli alveari. Il miele ordinario era ricavato dalle api selvatiche. Il miele che “scorreva”nella terra molto probabilmente era un derivato dell’uva. A volte lo si spalmava sul pane e a volte era diluito in acqua e usato come bevanda. La maggior parte del succo dell’uva era trasformato in vino, e non semplicemente per il gusto di berlo, ma piuttosto per necessità. L’acqua non si poteva bere tranquillamente a meno che non venisse da una sorgente, e il quantitativo di latte disponibile era limitato.

  33. LA PRODUZIONE DEL VINO Il succo dell’uva era lasciato fermentare per circa sei settimane nei recipienti in cui veniva raccolto. Al fondo del contenitore si formava una feccia. Il vino era poi spillato delicatamente in vasi senza smuovere tale feccia.I vasi erano sigillati con l’argilla, ma accanto al manico si lasciava un piccolo foro, attraverso il quale potevano liberarsi i gas che si formavano durante il restante processo fermentativo. Quando tale processo si era concluso, il foro veniva sigillato con un po’ di argilla fresca, sul quale magari si imprimeva il nome o il sigillo del proprietario. Il vino poteva anche essere posto in otri (contenitori di pelle di capra), ma se l’otre vecchio non era in grado di espandersi per far posto ai gas che si sprigionavano allora sarebbe scoppiato e il vino sarebbe andato perso.(Mt 9,17).

  34. Ai tempi del N T, in Giudea si importava vino proveniente da tutte le parti del mondo mediterraneo. Nelle case dei ricchi c’erano cantine e il vino era conservato in vasi stretti e appuntiti, chiamati amphorae. Le estremità appuntite erano conficcate nel terreno per mantenere il vino in fresco. Il vino si faceva anche con datteri, melograni, mele e cereali. Il vino di cereali probabilmente è quello che nella Bibbia viene chiamato “bevanda inebriante” (Lev 10,9; Is 56,12). Oltre all’ovvio uso come bevanda il vono era anche usato come disinfettante per lavare le ferite prima di medicarle con olio di oliva (Lc10,34). Il vino economico ( il vino dei soldati), prodotto prima che terminasse la fermentazione nei vasi di argilla, veniva mescolato con mirra o fiele per lenire il dolore (Mt 27,34).

  35. IL VINO NELLA TRADIZIONE CRISTIANA

  36. IL CRISTIANESIMO Al vino è attribuita nel N.T. un’importanza mai raggiunta in altre religioni. Eppure in una figura chiave che collega l’A.T. con il N.T. Giovanni Battista rifiuta di bere vino. Nel racconto di Luca sappiamo che era figlio del sacerdote Zaccaria al quale l’arcangelo Gabriele annunzia la nascita di un figlio che non berrà vino né bevande inebrianti. La proibizione si colloca nel contesto sacrale della normativa ebraica che ne vietava il consumo a chi si era consacrato a Dio. Gesù rifiutò quella prassi (Mt9,14-17;Mc2,18-22;Lc5,33-39) per inaugurare una stagione di libertà che si ripercuoterà anche in campo alimentare, fino al punto da riconoscere al vino un valore unico. A chi gli chiedeva perché non digiunassero e bevessero vino lui e i suoi discepoli, (Mc2,18-22) rispondeva che la stagione nuova da lui inaugurata rappresentava il vino nuovo e che la botte vecchia, invece, caratterizzava l’antica alleanza, incapace di contenere la novità portata da Gesù Cristo.

  37. Luca, in un contesto liturgico assolutamente centrale per il cristianesimo, definisce il vino “frutto della vite”(Lc22,18). L’immagine della vite rafforza il significato del vino: la vite rimanda spesso all’unione dei discepoli con Gesù (Gv15,18). Durante la predicazione la vite e la vigna o i vignaioli compaiono più volte nelle parabole (Mt20,1-16;21,33-46). Gesù stesso è la vera vite e il padre è un vignaiolo (Gv15,1).

  38. La presenza del vino acquista ancor più significato quando incontriamo il testo di ( Gv2,1-11) con il miracolo delle nozze di Cana. Gesù si servì della bevanda per parlare del regno di Dio nelle parabole. Ora, il testo di Giovanni ci mostra che Cristo inizia la sua attività pubblica con un segno forte (un miracolo) che vede assegnare al vino un ruolo di assoluto rilievo. L’irrompere nella storia di un nuovo ordine, quello escatologico.

  39. Il vino è uno degli elementi assolutamente necessari per il sacrificio eucaristico. Nella transustazione il frutto della vite si trasforma in sangue di Gesù (Mt26,27-28): ”Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: ‘Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati’” imponendo, così l’uso liturgico del vino ovunque si celebri il ringraziamento comunitario.

  40. La ricchezza simbolica dell’AT si ripercuote anche nel NT, Paolo non usa mezzi termini per mettere in guardia dall’uso sconsiderato del vino che può portare alla dissolutezza:” E non ubriacatevi di vino, il quale porta alla sfrenatezza”(Ef5,18). Nella lettera ai Romani 14,21 è categorico l’invito a non bere vino se il suo consumo può essere frainteso e motivo di scandalo nei fratelli della comunità. Addirittura l’evangelista Giovanni nell’Apocalisse, usa l’immagine della vite che non dà frutto per caratterizzare chi ascolta il messaggio di Gesù ma non lo accetta: all’incredulo spetterà la condanna finale rappresentata dall’assunzione del calice dell’ira divina (Ap 14,9).

  41. IL SIMBOLISMO DEL VINO Il simbolismo del vino è collocato in un contesto escatologico. Per annunziare i grandi castighi al suo popolo che lo offende, Dio parla della privazione del vino. Per contro, la felicità promessa da Dio ai suoi fedeli è espressa sovente sotto la forma di una grande abbondanza di vino. Nel NT, il “vino nuovo” è il simbolo dei tempi messianici. Di fatto Gesù dichiara che la nuova alleanza istituita nella sua persona è un vino nuovo che fa scoppiare gli otri vecchi. (Mc2,22) La menzione del vino non appartiene all’ordine del puro simbolo; è richiamata dal racconto della istituzione della eucaristia.Prima di bere il vino nuovo del regno del Padre, il cristiano, durante la vita, si nutrirà del vino diventato il sangue versato del suo Signore. (1 Cor 10,16)

  42. Per il cristiano l’uso del vino non è quindi soltanto un motivo di rendere grazie (Col 3,17) ma un’occasione per richiamare alla memoria il sacrificio che è la fonte della salvezza e della gioia eterna. (1Cor11,25) Il simbolismo del vino nell’eucaristia a differenza del pane, non appartiene all’ordine della necessità e, come vuole il Salmo 104.15, nelle culture apparse intorno al Mediterraneo, è il simbolo per eccellenza della felicità e della gratuità.

  43. Il simbolismo del vino completa e specifica pertanto il precedente: Sulla mensa non ci sono solo i beni necessari all’esistenza umana ma anche i beni qualitativi, quelli che, oltre a nutrire il corpo, gli procurano gioia e felicità, oltre ad essere “materiali” sono “culturali”. I beni “culturali”, nell’accezione di beni “artistici”, “urbanistici”, “letterari”, “scientifici”, “teoretici”, “teologici” o “spirituali”, ecc., non sono “secondari” o “artificiali” ma essi stessi “necessari” all’esistenza umana che, come ci insegna l’antropologia culturale, si fa veramente tale solo entro un orizzonte che trascende il funzionale e istituisce il qualitativo e il gratuito: una casa che, oltre a riparare, è bella; un cibo che, oltre a nutrire, è buono; un vestito che, oltre a proteggere, è elegante, ecc. Il “pane” e il “vino” rappresentano pertanto non solo l’insieme dei beni della terra ma, contemporaneamente e indissociabilmente, l’insieme della cultura umana, dal linguaggio all’arte, che sola costituisce il vero spazio abitabile dell’esistenza umana.

  44. Il “pane” e il “vino”posti sull’altare rappresentano , pertanto,la totalità della storia umana: l’insieme della natura e della cultura e delle strategie di trasformazione – il lavoro umano-che permettono il connubio tra l’una e l’altra. Disposti sull’altare, cioè sulla mensa, essi condensano l’intero tracciato della storia umana. Portare sulla mensa il ”pane”e il “vino”e presentarli a Dio, più che di offerta è un gesto di”proposizione”Presentare a Dio il ”pane”e il ”vino”non vuol dire offrirgli alcunché essendo già tutto suo, ma riconoscere, di quel ri-conoscimento che è seconda conoscenza, che essi appartengono non all’uomo o al gruppo che ne dispone, ma a Dio e che alla loro origine c’è una bontà che, mentre li esige, li trascende. Si tratta di un ri-conoscimento non formale ma che è veramente “nuovo”sapere e “nuova” conoscenza, dischiudendo una nuova modalità di rapporto con essi.

  45. LA COLTURA DEL VINO NELLE ABBAZIE Nei primi anni che seguirono la fine dell’impero romano, la chiesa fu l’unica istituzione che resse il nuovo corso dei tempi . Il vino conosciuto e apprezzato da chi abitava le sponde del Mediterraneo, era, invece surclassato per le genti del Nord da un’altra bevanda: la birra. Il vino seppe mantenere il privilegio riconosciuto dai greci e dai romani e conquistare anche le abitudini dei nuovi padroni, ciò fu dovuto soprattutto alla necessità dei cristiani di celebrare il sacrificio eucaristico. Testimonianza preziosissima furono gli ordini monastici, i monaci dovendo celebrare la Messa, coltivarono vigneti ovunque il clima permettesse di piantarli.

  46. Le cosiddette “vigne monastiche” erano diffuse in tutta Europa. Il loro ruolo nel perfezionamento della vinificazione resterà dominante fino al XVIII sec: fu Dom Perignon, dei benedettini di Saint –Vanne, a inventare lo champagne .Le abbazie, grazie al lavoro paziente dei monaci, garantivano pane e vino sia per la sussistenza economica che per la liturgia.Il loro lavoro permetteva anche di offrire ai bisognosi qualcosa da mangiare e da bere. Per san Benedetto l’altro è Cristo! L’accoglienza monastica è quindi ordinata a questo riconoscimento. “Nell’ ospite è Cristo che viene e ci educa alla consapevolezza della misericordia di cui noi siamo stati oggetto e a cui dobbiamo aprirci con gratuità:”Come ho fatto io con voi, fate anche voi”(Giovanni 13,15)”. Nell’alto Medioevo la carità era inizialmente “ organizzata” attorno alla porta e affidata al portarius, il quale amministrava la decima delle entrate del monastero per gli ospiti e per i poveri.

  47. I conventi, i monasteri, i luoghi di accoglienza gestiti dai religiosi sulle strade che portavano alle mete dei grandi pellegrinaggi medievali dispensassero con gioia molte cose: e il vino non era mai assente. Il capitolo 40 della Regola è intitolato “La quantità del bere”. In un ordine dove è fondamentale non solo soddisfare l’esigenza spirituale (ora), ma è tenuta in gran conto anche l’attitudine al lavoro (labora), non deve certo meravigliare l’attenzione posta da Benedetto al cibo. “Tuttavia, tenendo le necessità dei più deboli, riteniamo che a ciascuno sia sufficiente un’emina (un quartino 0,27 l) al giorno . Ma coloro ai quali Dio dona la capacità di astenersene,sappiano che riceveranno una ricompensa particolare . Se le esigenze locali, il lavoro o il caldo d’estate ne richiedessero una quantità maggiore, sia in potere del superiore concederla, badando sempre di evitare a tutti la nausea o l’ubriachezza”. L’equilibrio che regna nella Regola fa si che “è meglio prendere un po’ di vino per necessità, che molta acqua con avidità”.

  48. Lo scontro tra modelli culturali e alimentari lasciò lentamente lo spazio a un lento ma costante processo di integrazione: il pane e il vino tornarono cosi protagonisti a tavola e non solo. Se le vigne dei monasteri erano in qualche modo più sicure di altre, per proteggere i vitigni l’Editto di Rotari(642) prevedeva pene pecuniarie per chi danneggiava i vitigni. Carlo Magno nel Capitulare de Villis si preoccupa di punire quanti impedivano la coltivazione del terreno al fine di ricavare il vino per la celebrazione eucaristica. Questi fattori permisero nei sec.XVII –XIV di registrare una grande percentuale di terreno coltivato a vite.

  49. La diffusione del famoso Sagrantino di Montefalco in Umbria, non è da escludere una sua prima citazione in epoca romana da Plinio il Vecchio che la definisce “uva itriola” tipica della zona. Nulla è certo sull’origine di questo vitigno, gran parte degli agricoltori propende nel ritenere che non sia una varietà locale, bensì importata, forse da uno dei numerosi seguaci di San Francesco di Assisi, i quali qui da ogni parte di Italia affluivano per condurre una vita di espiazione e penitenza. E i giovani monaci si davano alla coltivazione dei loro orti e dei loro giardini, nei quali avevano cure di importare le qualità più pregiate che avevano imparato a assaporare

  50. IL VINO NEL CULTO DEI SANTI Alcuni santi hanno legato il loro nome al vino. I martiri sono spesso associati al vino: l’ analogia tra il sangue versato e il vino è evidente come per san Vincenzo di Saragozza, il quale subì le persecuzioni romane nell’anno 304, contiene nel nome la parola “ vino” ed è invocato come protettore dai viticoltori e dai commercianti di vino della Borgogna. A san Martino di Tours è attribuita la prima coltivazione di molti vigneti e la produzione di molti vini. Papa Urbano II nel 1096 sosteneva di aver visitato un monastero che ancora conservava un vitigno piantato dal santo. Martino è patrono dei vignaioli di alcune regioni come la Mosella,ma la sua festa è diffusa ovunque. San Morando il suo legame con l’uva è circondato da leggende, testimone dell’ opera dei monaci che coltivarono la vite ovunque .

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