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IL POTERE DISCIPLINARE NEL LAVORO PUBBLICO

IL POTERE DISCIPLINARE NEL LAVORO PUBBLICO. SCHEMA DELLA LEZIONE. 1) Il fondamento del potere disciplinare 2) I l (mutato) spazio riservato all’autonomia collettiva 3) Il codice disciplinare 4) Il codice di comportamento 5) Il principio di proporzionalità 6) La rilevanza della recidiva

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IL POTERE DISCIPLINARE NEL LAVORO PUBBLICO

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  1. IL POTERE DISCIPLINARE NEL LAVORO PUBBLICO

  2. SCHEMA DELLA LEZIONE 1) Il fondamento del potere disciplinare 2) Il (mutato) spazio riservato all’autonomia collettiva 3) Il codice disciplinare 4) Il codice di comportamento 5) Il principio di proporzionalità 6) La rilevanza della recidiva 7) Le infrazioni tipizzate dal d.lgs. 150/2009 8) Il procedimento disciplinare (e il rapporto con quello penale) 9) La conciliazione

  3. 1) Il fondamento del potere disciplinare della P.A. La limitazione dell’esercizio del potere disciplinare si manifestò nel p.i. molto prima che nel settore del lavoro privato; precisamente, fu il T.U. Giolitti (L. 22.11.1908, n. 693), a individuare le possibili infrazioni, collegandole alle relative alle “punizioni” (censura; sospensione dallo stipendio da 1 giorno a 1 mese; sospensione dal grado e dallo stipendio fino a 6 mesi o, persino, a tempo indeterminato; revocazione; destituzione), e a regolare il procedimento disciplinare (ivi compresa la possibilità di ricorso in via gerarchica contro le sanzioni) e le interferenze con l’eventuale procedimento penale

  4. Un bivio storico: pubblico vs privato Sul potere disciplinare gli studiosi (Santi Romano nel 1898) fondarono la teoria della supremazia speciale della P.A. nei confronti dei propri impiegati. Nel medesimo periodo, nel lavoro privato al potere disciplinare veniva attribuito un fondamento contrattuale

  5. Il periodo fascista La supremazia speciale, divenuta la chiave di lettura complessiva del rapporto di p.i., fu accolta e amplificata (nel suo tratto gerarchico e autoritativo) dall’ideologia fascista Cfr. R.d. 11.11.1923, n. 2395, sull’ordinamento gerarchico delle amministrazioni dello Stato, e R.d. 30.12.1923, n. 2960, sullo stato giuridico degli impiegati civili dello Stato. Significativamente, nella allegata relazione, si legge che il rapporto di p.i. non è “una ordinaria prestazione d’opera alla quale corrisponde un semplice e materiale corrispettivo ma bensì un rapporto etico”.

  6. Dalla Costituzione al T.U. del 1957 La Costituzione non supera, anzi avalla, la teoria della supremazia speciale, attraverso l’art. 97. Tale impostazione si tradusse, nel d.p.r. 3/1957, ove la determinazione dei doveri del dipendente richiamava nozioni ampie ed indeterminate, e – soprattutto - informate a contenuti etici (onore, prestigio, fedeltà, ecc.). La supremazia speciale giustifica una dilatazione dei doveri del dipendente pubblico oltre l’ambito della prestazione lavorativa, fino a interessare ogni atto o comportamento (anche extra-lavorativo) ritenuto incompatibile con lo status connesso all’esercizio di pubbliche funzioni. Ad un’ampia discrezionalità della P.A. nella concreta identificazione delle condotte punibili (stante l’inapplicabilità – affermata dalla giurisprudenza amministrativa e dalla dottrina tradizionale - del principio penalistico ‘nullum crimen sine lege’) non corrispose una tipicità rigida delle misure punitive: alle sanzioni espressamente previste (censura, riduzione dello stipendio, sospensione della qualifica, destituzione) si aggiungevano di fatto quei provvedimenti concretamente utilizzati (nonostante i tentativi giurisprudenziali di arginare tale fenomeno) in chiave disciplinare, benché formalmente concepiti ad altri fini (trasferimento per incompatibilità ambientale, decadenza, dispensa per scarso rendimento).

  7. La successiva evoluzione Il modello delineato dal T.U. del ‘57 rimase sostanzialmente invariato fino alla riforma del ’92, ma nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale maturò un diverso approccio al tema del potere disciplinare: in nome dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento della P.A. la concezione ‘autoritativa’ dell’azione amministrativa assunse una nuova configurazione, pur sempre funzionalizzata al perseguimento degli interessi pubblici, ma in termini di neutralità, ragionevolezza e non arbitrarietà, e non certo di asservimento a logiche di gerarchia e di controllo politico. Si cominciava a considerare il potere di infliggere sanzioni come uno strumento finalizzato a pretendere dai dipendenti pubblici il diligente adempimento dei propri compiti, e quindi come un mezzo a tutela dell’organizzazioneamministrativa.

  8. La legge 29.3.1983, n. 93 Sancì anche nel lavoro pubblico il principio della necessaria predeterminazione delle sanzioni in relazione ai “fatti” punibili, i quali dovevano rientrare in “categorie determinate” (così imitando il principio - nel frattempo riconosciuto ex lege per i lavoratori privati - dall’art. 7 Stat. lav.) e riconobbe al lavoratore la possibilità di farsi assistere dal sindacato nell’esercizio del diritto di difesa. Si realizzò, inoltre, una prima apertura alla fonte negoziata (l’accordo sindacale recepito nel d.p.r.), al quale la legge-quadro, affidò la potestà di disciplinare le garanzie procedurali, in realtà già compiutamente sviluppate nel T.U. del ‘57 e nella successiva elaborazione giurisprudenziale, tant’è che nulla di significativo aggiunsero gli accordi collettivi emanati nel decennio successivo, ossia nelle tornate del 1987 e del 1990. Di contro, il momento precettivo (ossia l’individuazione delle infrazioni e sanzioni) rimase rigidamente riservato alla legge e/o alle fonti unilaterali, in linea con l’impianto tradizionale

  9. La riforma avviata nel 1992 Cade ogni retaggio della tradizionale configurazione del potere disciplinare quale espressione della supremazia speciale della P.A., il suo fondamento non può che essere il contratto di lavoro, fonte di diritti ed obblighi per le parti, nell’ambito del quale l’ente pubblico agisce “con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”, irrogando sanzioni, non più mediante la figura dell’atto amministrativo (la cui disciplina è oggi inapplicabile), bensì mediante negozio giuridico. Si tratta di un fondamento unitario per il lavoro pubblico e privato: la radice comune del potere disciplinare di tutti i rapporti di lavoro subordinato è ormai l’art. 2106 c.c. (dichiarato applicabile ai dipendenti pubblici sin dall’art. 59, d.lgs. 29/1993).

  10. Il D.lgs. 150/2009 La matrice negoziale e privatistica del potere disciplinare non è travolta dalla riforma Brunetta, nonostante le incisive modifiche.

  11. Il D.lgs. 150/2009 Neppure il sensibile restringimento degli spazi in precedenza riservati all’autonomia collettiva, in una materia riconducibile alla sfera del rapporto di lavoro, vale a mutare la natura negoziale del procedimento disciplinare e del suo atto conclusivo - la sanzione - che non (ri)acquista la natura di atto amministrativo, nemmeno quando è irrogata in relazione ad illeciti rispondenti a fattispecie predeterminate dal legislatore. La “legificazione” non implica una “ripubblicizzazione” della materia

  12. Il D.lgs. 150/2009 Tale conclusione non è stravolta neppure dalla cosiddetta ‘obbligatorietà’ dell’azione disciplinare, ricavabile dalla nuova fattispecie di illecito (la responsabilità per omessa attivazione del procedimento disciplinare). Si tratta di una limitazione del suo carattere squisitamente discrezionale, orientata a perseguire il dirigente che faccia un cattivo uso del proprio potere. Tecnicamente, dunque, la norma serve a precisare i contorni della responsabilità disciplinare del dirigente (in quanto lavoratore e non in quanto datore di lavoro)

  13. Con la riforma Brunetta…. …nella regolazione del potere disciplinare: • si è allargata la distanza pubblico/privato

  14. 2) Il (mutato) spazio riservato all’autonomia collettiva Anche dopo il d.lgs. 150/2009, la definizione della “tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni” continua ad essere attribuita alla competenza dei contratti collettivi (art. 55, 2° co., d.lgs. 165/2001). In generale, è confermata la funzione regolativa dell’autonomia collettiva, ma è sensibilmente eroso l’ambito entro cui essa può esercitarsi, in presenza di una fitta trama di nuove disposizioni legislative non solo “fatte salve”, ma dichiarate imperative “ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419, 2° co., c.c.

  15. La prevalenza della legge sul contratto collettivo è ribadita nella norma secondo cui in materia di “sanzioni disciplinari” (e di valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, mobilità e progressioni economiche) “la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge” (art. 40, 1° co., d.lgs. 165/2001). Il messaggio è più politico che tecnico: la legge segna un (angusto) tracciato alle parti sociali, presidiandone i confini con il filo spinato. Per quanto fortificate siano le mura di cinta che proteggono gli ambiti regolati dalla legge, rimane possibile – per il contratto collettivo – muoversi nello spazio residuo. Tale conclusione emerge dalla circolare Funzione Pubblica 14/2010, ove è ribadito che la contrattaz. coll. può intervenire “nei limiti di quanto consentito dalla legge e negli ambiti non riservati alla legge stessa” = senza bisogno di espressa delega dalla legge

  16. L’effetto delle nuove norme di legge in materia disciplinare è immediato, posto che, in assenza di apposita indicazione in senso contrario, le disposizioni contrattuali in essere alla data di entrata in vigore del d.lgs. 150/2009, eventualmente in contrasto con le fattispecie sanzionatorie legali, sono sostituite di diritto. La circolare 14/2010 precisa che, in presenza di clausole contrattuali difformi, il meccanismo della sostituzione “produce i suoi effetti già a livello di applicazione della norma da parte dell’operatore, senza la necessità di un accertamento preventivo della nullità della clausola da parte del giudice

  17. Il rinvio legale all’autonomia collettiva opera in favore dei “contratti collettivi”, senza ulteriori specificazioni: ne deriva, quindi, che la contrattazione collettiva potrebbe, a sua volta, affidare tale materia alla contrattazione decentrata, il che però non si è mai verificato, sulla falsariga del modello regolativo affermatosi nel settore privato (dove è sempre e solo il CCNL a regolare tale materia).

  18. 3) Il codice disciplinare Grazie all’art. 7 Stat. lav., la predeterminazione e la pubblicazione del codice disciplinare, ossia di un documento contenente l’indicazione delle infrazioni, delle sanzioni e delle procedure di contestazione, diventò un presupposto essenziale per la validità del provvedimento disciplinare irrogato al lavoratore

  19. A seguito della riforma del 1992, l’applicazione dell’art. 7, Stat. lav. alla P.A. è stata espressamente riconosciuta dal legislatore e, di conseguenza, il codice disciplinare ha fatto il suo ingresso ufficiale nel bagaglio normativo (e, quindi, anche culturale) del lavoro pubblico. Attualmente, il richiamo alla norma statutaria è venuto meno, pur rimanendo in piedi la disposizione che affida alla contrattazione collettiva la definizione delle infrazioni e delle sanzioni, oggi accompagnata dall’ulteriore disposizione secondo cui “la pubblicazione sul sito istituzionale dell’amministrazione del codice disciplinare, recante l’indicazione delle predette infrazioni e relative sanzioni, equivale a tutti gli effetti alla sua affissione all’ingresso della sede di lavoro” (art. 55, 2° co., d.lgs. 165/2001).

  20. I contratti di comparto impongono “la massima pubblicità” del codice disciplinare “mediante affissione in luogo accessibile a tutti i dipendenti”, aggiungendo che “la forma di pubblicità e tassativa e non può essere sostituita da altre”. Quest’ultima specificazione deve ora ritenersi contra legem e perciò nulla, alla luce della nuova modalità di pubblicità del codice prevista dal d.lgs. 150/2009, tant’è vero che i (pochi) CCNL sottoscritti dopo l’entrata in vigore di quest’ultimo hanno previsto che la pubblicazione del codice avvenga secondo le nuove modalità. Naturalmente, nulla vieta che, nelle singole amministrazioni, il codice disciplinare, nella sua tradizionale versione cartacea, rimanga affisso lì dov’era, in quanto sarebbe del tutto illogico ipotizzare un obbligo di ‘rimozione’ del medesimo. Secondo la circolare 14/2010, “le amministrazioni potranno completamente sostituire la pubblicità tramite affissione con la pubblicazione on line solo qualora l’accesso alla rete internet sia consentito a tutti i lavoratori, tramite la propria postazione informatica”.

  21. Il contenuto del codice disciplinare Rispetto alla finalità di predeterminare e rendere conoscibile la normativa disciplinare, la questione cruciale attiene al grado dispecificitàdelle infrazioni. In passato, era proprio nella generica individuazione dei comportamenti vietati che si annidava la legittimazione di un uso ampiamente discrezionale del potere disciplinare. Da tempo, la giurisprudenza nel lavoro privato sostiene la tesi della ‘tassatività relativa’, escludendo che trovi applicazione in materia disciplinare il medesimo rigore formale richiesto in materia penale. Si sostiene, cioè, che la previsione delle infrazioni non debba essere necessariamente “precisa e sistematica”, ma possa essere anche “di carattere schematico e non dettagliato”, consentendo un adattamento alle “concrete ed effettive inadempienze del lavoratore”, purché la collocazione della condotta del lavoratore non risulti interamente devoluta ad una valutazione unilaterale ed ampiamente discrezionale

  22. Nei contratti di comparto, il tasso di specificità delle categorie di condotte vietate appare decisamente vario. Si passa da precetti che individuano singoli comportamenti precisamente definiti (come, ad es., il rifiuto di assoggettarsi a visite personali disposte a tutela del patrimonio dell’amministrazione) a vere e proprie norme in bianco, o di chiusura (“violazione di obblighi di comportamento non ricompresi specificatamente nelle lettere precedenti, da cui sia derivato disservizio ovvero danno o pericolo all’ente, agli utenti o ai terzi”), le quali riproducono il rischio di una qualificazione ex post dell’illecito da parte dell’amministrazione.

  23. Con riferimento ai limiti edittali della sospensione, si segnala una significativa peculiarità del settore pubblico. L’art. 7, Stat. lav. appone un tetto massimo all’entità della multa (4 h della retribuzione base) ed alla sospensione (10 gg. di retribuzione). Il legislatore ha scelto di non estendere tale disposizione al lavoro pubblico, già dall’art. 59, d.lgs. 29/1993 (che richiamava solo i commi primo, quinto e ottavo dell’art. 7 Stat. lav.). Ne consegue che la contrattazione collettiva può costruire “con ampia libertà il codice disciplinare”, e, infatti, se per la multa i contratti collettivi di tutti i comparti della pubblica amministrazione mantengono fermo tale limite, per la sospensionemolti di essi (a partire dalla tornata 2002/2005) hanno innalzato il limite, portandolo fino a 6 mesi. Fa eccezione il comparto Scuola

  24. 4) Il codice di comportamento Emanato con DPCM del 28.11.2000 I comportamenti ivi previsti, seppur eticamente doverosi, di per sé non si configurano come obbligo contrattuale, se non grazie all’esplicito rinvio operato dal CCNL. Il d.lgs. 150/2009, tuttavia, sembra attribuire un rilievo autonomo al codice di condotta, quando configura come causa di responsabilità disciplinare l’intervenuta “condanna della P.A. al risarcimento del danno derivante dalla violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza o dai codici di comportamento” (art. 55 sexies). Tale norma presuppone la doverosità delle condotte previste nel codice. Un richiamo al carattere vincolante del codice di comportamento promana pure dalla fattispecie del licenziamento disciplinare per insufficiente rendimento (art. 55-quater, 2° comma), il quale è collegato alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa stabiliti, anche in questo caso, “da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza o dai codici di comportamento”.

  25. 5) Il principio di proporzionalità L’art. 55, 2° co., d.lgs.165/2001 richiama l’art. 2106 c.c., il quale impone che l’entità della prima sia rapportata alla “gravità” della seconda, secondo la logica ‘retributiva’ propria della sanzione penale. La matrice privatistica e negoziale del potere disciplinare rende sindacabile la sanzione sproporzionata senza passare attraverso i vizi tipici dell’atto amministrativo (in questo caso, l’eccesso di potere), bensì invocando la lesione del diritto soggettivo del lavoratore

  26. Nel tentativo di supportare il controllo giudiziale sul nesso di proporzionalità, la giurisprudenza – nel lavoro privato – attribuisce rilevanza non solo alla portata oggettiva dell’infrazione compiuta, ma anche alle circostanze del caso concreto, con particolare riguardo all’elemento psicologico, ossia alle modalità soggettive della condotta ed alla eventuale ricorrenza di cause di giustificazione

  27. Si è discusso, sempre nell’ambito del lavoro privato (ma non vi è ragione per non estendere ora tale ragionamento al settore pubblico), se il giudice abbia o meno il potere di ridurre la sanzione, nel caso in cui la reputi eccessiva. La giurisprudenza prevalente ammette tale facoltà di riduzione, tanto sul piano quantitativo (tra un massimo ed un minimo edittali), quanto su quello qualitativo (nel qual caso, si può parlare di ‘conversione’).

  28. Il principio di proporzionalità sanzione/infrazione trova una particolare considerazione nei CCNL, attraverso una serie di “criteri generali”, collocati in apertura del codice disciplinare ed atti a supportare la P.A. della determinazione del tipo e della entità delle sanzioni. Essi si ispirano al diritto penale: ad es., “intenzionalità del comportamento”, “eventuale sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti”, “concorso nella mancanza di più lavoratori in accordo tra loro”. Non manca lo sforzo di considerare le conseguenze oggettive prodotte dall’illecito, nel momento in cui si guarda al “grado di disservizio o di pericolo provocato”. A volte, si sfocia in una criticabile genericità (retaggio della passata configurazione pubblicistica), come quando si fa riferimento alla “rilevanza della violazione di norme o disposizioni”, o al “comportamento verso gli utenti”, senza alcuna specificazione che consenta di comprendere meglio il significato di tali clausole.

  29. Tali criteri si applicano alle nuove infrazioni tipizzate ex lege? La delicatezza della questione si accentua per le fattispecie che danno luogo “comunque” al licenziamento disciplinare, ove è messo in tensione lo stesso giudizio di proporzionalità ex art. 2106 c.c. La ratio legis è quella di rendere ‘auto-concluse’ le fattispecie disciplinari direttamente disegnate dal legislatore, rendendole immuni da ogni interferenza con le previsioni negoziali. In ogni caso, le norme di legge che introducono illeciti disciplinari rimangono sottoposte al principio legale di proporzionalità

  30. Dal principio di proporzionalità si può ricavare una regola di parità di trattamento dei lavoratori rispetto alle sanzioni disciplinari? In generale, nel lavoro privato, non esiste una regola generale di parità di trattamento tra lavoratori idonea a vincolare gli atti dell’imprenditore. In materia disciplinare, tale vincolo implicherebbe che per uno stesso illecito tutti i lavoratori siano sanzionati allo stesso modo. Certamente, ogni differenziazione di trattamento fra lavoratori deve essere vagliata alla luce della normativa antidiscriminatoria. Nel lavoro pubblico, a ciò si aggiunge l’eventuale responsabilità del dirigente (o di chi per lui), per inerzia nell’attivazione o nella conduzione del procedimento disciplinare. L’esercizio del potere disciplinare solo verso alcuni dei lavoratori, tutti autori del medesimo illecito, non farà che aggravare l’intensità di tale responsabilità (per dolo o colpa). Ma fino a quando il procedimento sia stato regolarmente osservato, e la sanzione risulti adeguata all’infrazione commessa, la circostanza della mancata punizione di altri autori del medesimo illecito – di per sé – non può rendere illegittimo quel provvedimento, né sul piano procedurale (come è del tutto ovvio), ma neppure sul piano sostanziale (se la sanzione rispetta i limiti edittali previsti dal codice disciplinare)

  31. 6) La rilevanza della recidiva Recidiva: la condizione personale di “chi, dopo essere stato condannato per un reato, ne commette un altro” (art. 99 c.p.). Ha l’effetto di aggravare la sanzione astrattamente applicabile in relazione all’illecito singolarmente commesso.

  32. Secondo la giurisprudenza, si possono considerare fatti non contestati, risalenti anche a prima dell’inizio dei 2 anni, ai fini della valutazione della significatività e della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle infrazioni commesse dal lavoratore (di cui si finisce, così, quasi per giudicare la ‘personalità’). I contratti collettivi sembrano avallare la possibilità di dare rilievo a circostanze e fatti pregressi, benché non strettamente spendibili ai fini della valutazione della recidiva. Infatti, fra i criteri di determinazione del tipo e dell’entità della sanzione da irrogare, è menzionato il “comportamento complessivo del lavoratore”. In ciò, si può leggere qualcosa di più rispetto alla mera riaffermazione della rilevanza della recidiva

  33. Ci si è chiesti se la recidiva debba formare oggetto della contestazione degli addebiti, a pena di nullità della successiva sanzione: la giurisprudenza prevalente ritiene necessario contestare la recidiva solo quando essa rappresenti un elemento costitutivo della sanzione disciplinare, e non anche quando essa sia soltanto assunta come criterio estrinseco per la determinazione dell’entità della sanzione. In verità, la distinzione appare sottile, tant’è vero che si suggerisce di “anticipare al prestatore la volontà di tener conto dei precedenti disciplinari (specie se specifici), al fine di trarne poi le debite conseguenze al momento dell’applicazione della sanzione

  34. 7) Le infrazioni tipizzate dal d.lgs. 150/2009 La legge si impegna in una minuziosa elencazione di fattispecie, spesso riproponendo figure di illeciti già contemplate dalla contrattazione collettiva In tal caso, si ha un effetto di carattere ‘esortativo’ nei confronti degli operatori, affinché “le norme, proprio perché legali e sottratte alla disponibilità delle parti, questa volta trovino puntuale ed effettiva applicazione. Ogniqualvolta la sovrapposizione con la disciplina contrattuale non sia integrale, quest’ultima dovrà cedere di fronte al primato della legge.

  35. a) Mancata collaborazione in un procedimento disciplinare verso altro lavoratoreart. 55-bis, 7° comma Nel complesso, la nuova fattispecie disciplinare intende colpire quelle condotte che producano un intralcio alle indagini. In tal modo, fra gli obblighi di ciascun lavoratore compare quello di collaborare all’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti di qualsiasi altro dipendente pubblico. Un simile obbligo non sembra ascrivibile né al concetto di diligenza, né a quello di fedeltà. Trattasi di un’infrazione per favoreggiamento disciplinare, nella quale l’interesse non è quello di sanzionare una condotta connessa allo svolgimento della propria prestazione lavorativa ma l’obbligo di collaborare al perseguimento della repressione dell’inefficienza. Obbligo di delazione! Probabilmente, si tratta di una proiezione dell’obbligo di obbedienza (art. 2104, 2° co., c.c.), che avvicina molto la posizione del datore di lavoro a quella dell’autorità pubblica che agisce per la repressione dei reati, autorità alla quale si deve collaborazione

  36. Già il CCNL prevede – come infrazione – quella del rifiuto di testimonianza oppure testimonianza falsa o reticente in procedimenti disciplinari, sanzionandola con la sospensione fino ad un massimo di 10 gg. A prescindere dall’innalzamento del limite da 10 a 15 gg., ci si chiede se la nuova fattispecie legale combaci perfettamente con quella appena indicata. Potrebbe avere un significato il riferimento al rifiuto di “collaborazione”, anziché di “testimonianza”. Teoricamente, la testimonianza appare una species del genus ‘collaborazione, ossia una delle possibili manifestazioni della volontà di cooperare alle indagini, essendo anche possibile che ci si attivi spontaneamente per contribuire a queste ultime. È vero, però, che la collaborazione deve essere richiesta dall’autorità disciplinare procedente e, quindi, ciò significa che non può esservi un obbligo di delazione, di denuncia degli illeciti di cui si è conoscenza, se non a seguito di un’espressa richiesta da parte dell’amministrazione. Non si vede come possa la richiesta di collaborare non coincidere con la richiesta di dichiarare, o testimoniare, ciò che si sa.

  37. Quando sarà legittimo rifiutare il proprio contributo all’esercizio del potere disciplinare? Mai, se ci si colloca nell’ottica (e nell’interesse) dell’amministrazione. Ma bisogna sempre comparare due interessi che possono risultare non convergenti, quello dell’amministrazione a punire, e quello del lavoratore a non subire un pregiudizio. Si tratta, però, di determinare quale ipotetico pregiudizio possa giustificare la mancata collaborazione. Volendo ipotizzare una situazione grave, se non estrema, si potrebbe pensare alla fattispecie in cui il dipendente, a conoscenza di informazioni che provano la colpevolezza di un proprio collega, sia da questi minacciato e costretto a tacere. A questo punto, è necessario soppesare la serietà e gravità della minaccia, entrando in un terreno di valutazione che ricorda l’esimente di cui all’art. 384 c.p.: nei delitti contro l’attività giudiziaria, non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”.

  38. Questioni applicative - Posto che è il lavoratore ‘omertoso’ a dover provare il giustificato motivo, è possibile che, se egli ha taciuto l’informazione per paura, per la stessa ragione taccia anche la minaccia subita, preferendo piuttosto subire – a sua volta – la sanzione disciplinare. - E, poi, in quali altre circostanze sarà giustificato il rifiuto? Magari quando rivelando l’illecito altrui, si finisca per rivelare anche il proprio? Per esempio, se due lavoratori si sono ingiustificatamente allontanati assieme dal posto di lavoro, ma solo uno dei due sia finito sotto procedimento disciplinare, l’altro è forse obbligato ad ammettere i fatti di cui è, ovviamente, a conoscenza? In caso affermativo, si renderebbe obbligatoria l’auto-denuncia da parte del lavoratore. - A proposito delle informazioni “rilevanti” ai fini di un procedimento disciplinare in corso, ovvero delle dichiarazioni “false o reticenti”, ci si può chiedere se sia necessario o meno che tali condotte influiscano sull’esito del procedimento disciplinare (e, in caso affermativo, in quale misura). Che succede se l’incolpato viene comunque sanzionato, grazie ad altre prove di cui l’amministrazione riesce a entrare in possesso? E se la falsità o la reticenza contribuiscono solo ad un alleggerimento dell’entità della sanzione? E, in quest’ultimo caso, cosa accadrebbe se la sanzione (più lieve di quella che sarebbe stato possibile adottare, ove la P.A. fosse stata in possesso dell’informazione taciuta) fosse poi impugnata e dichiarata illegittima per un vizio procedurale (che renderebbe irrilevante tutta la parte sostanziale della vicenda)?

  39. b) Condanna della P.A. al risarcimento del danno derivante dalla violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativaart. 55-sexies, 1° comma L’infrazione si configura a condizione che “già non ricorrano i presupposti per l’applicazione di altra sanzione disciplinare”. A prima vista, sembra trattarsi di una condizione impossibile: come può la violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa (alias, obblighi contrattuali) non consistere in una (autonoma) infrazione disciplinare (a prescindere dall’eventuale danno che ne consegue per i terzi). Forse, per “altra sanzione”, il legislatore intendeva riferirsi ad un’altra sanzione più grave, ossia una sospensione di maggiore entità oppure il licenziamento. In tal caso, la sanzione maggiore assorbirebbe quella minore e quindi la nuova disposizione servirebbe ad inasprire la punibilità di quei comportamenti che, presi singolarmente, porterebbero ad una sanzione più lieve, ma poi, in relazione alla conseguente condanna risarcitoria inflitta alla P.A., assumono un quid pluris di offensività, ricadendo nella fattispecie in esame.

  40. Un’altra possibile lettura induce a esigere che la violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, pur essendo sanzionabile, non sia stata effettivamente sanzionata, ma abbia poi prodotto la condanna della P.A. al risarcimento del danno. Viceversa, ove sia stata già punita con apposito provvedimento, non potrebbe certo scattare una nuova sanzione disciplinare per il medesimo comportamento, stante il principio ne bis in idem. In quest’ultimo caso, la P.A. – chiamata a rispondere del fatto colposo o doloso di uno dipendente in applicazione dell’art. 28 Cost. - potrà esperire nei confronti del dipendente l’azione di responsabilità per danno erariale. Ad es., se il lavoratore, assentandosi ingiustificatamente dal lavoro, omette di compiere, nel termine prestabilito, un’attività negoziale dovuta nei confronti di terzi, la P.A. potrà contestargli l’assenza ingiustificata e potrà anche agire a titolo di responsabilità per il danno cagionato dall’omissione del proprio dipendente (consistente nell’esborso da parte della P.A. di una somma di denaro), una volta divenuto oggetto di condanna. Come è noto, trattasi di due azioni di natura diversa, “l’azione disciplinare è sanzionatoria di una condotta, quella erariale è risarcitoria”. L’utilità della nuova fattispecie si coglierebbe, allora, nel caso cui l’amministrazione abbia omesso di contestare al dipendente la violazione di un obbligo contrattuale (ad esempio, l’assenza ingiustificata) e intenda poi ‘recuperare’ quell’infrazione sul piano disciplinare, una volta condannata al pagamento del danno. In tal caso, però, non si comprende come si possa giustificare un procedimento disciplinare attivato (ora per allora) in relazione a fatti così risalenti nel tempo. Infatti, se la condanna della P.A. è un elemento costitutivo dell’infrazione, è solo dalla comunicazione della relativa sentenza che dovrebbe decorrere il termine per la contestazione di addebito. Ma che senso avrebbe un simile procedimento disciplinare?

  41. La norma si riferisce ad un danno “derivante” dalla violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa, per il quale la P.A. abbia subito “condanna”. Quest’ultima può essere l’effetto anche, o solo, di un comportamento difensivo inerte: mancata costituzione in giudizio, imperizia difensiva, ecc. Ma se così fosse, si aprirebbe un contenzioso infinito circa la qualità della difesa giudiziale della P.A. Non è nemmeno chiaro se si debba attendere il passaggio in giudicato della sentenza, posto che la norma parla genericamente di condanna. Se bastasse una sentenza di I grado, l’infrazione potrebbe venir meno dopo che la sanzione è stata già scontata (per effetto della riforma della sentenza nei successivi gradi di giudizio). Per di più, se il nesso di causalità fra condotta del lavoratore (violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa) ed evento (la condanna al risarcimento del danno) fosse inteso in termini puramente oggettivi, si finirebbe per alterare la natura stessa del giudizio di responsabilità disciplinare, sempre basato sull’elemento soggettivo (dolo o colpa). Insomma, perché la condanna al risarcimento del danno possa assurgere ad elemento costitutivo della fattispecie, occorre che essa sia almeno colposamente ascrivibile alla condotta del lavoratore, ma ciò è esattamente ciò che la norma omette di dire

  42. c) Il danno grave al normale funzionamento del proprio ufficio per inefficienza o incompetenza professionaleart. 55-sexies, 2° comma Affinità con la fattispecie dell’insufficiente rendimento. Incongruenza tra le sanzioni previste per le due infrazioni, sul piano della proporzionalità: l’insufficiente rendimento conduce al licenziamento, il grave danno al normale funzionamento dell’ufficio per inefficienza o incompetenza professionale implica la sospensione del rapporto, per collocamento in disponibilità, per un biennio, durante il quale il lavoratore ha diritto ad un’indennità pari all’80 % dello stipendio e dell’IIS, escluso qualsiasi altro emolumento retributivo (art. 33, 8° co., richiamato dall’art. 55-sexies, 2° co.). Ma l’infrazione che porta al licenziamento sembra meno grave di quella che giustifica il collocamento in disponibilità: lo scarso rendimento, indice di inefficienza o incompetenza, potrebbe non generare alcun danno grave, eppure è punito con la sanzione più grave. Si è provato a invertire la posizione delle due fattispecie nella scala di proporzionalità: mentre lo scarso rendimento presuppone un biennio di valutazione negativa e quindi una improduttività di lunga durata, il danno al normale funzionamento dell’ufficio è colpito con una sanzione più lieve, perché cagionato da un “evento singolo”. In verità, non è affatto scontato che la norma sanzioni un’inefficienza una tantum”, dal momento che deve pur sempre trattarsi di inefficienza o incompetenza professionale accertate ai sensi delle disposizioni in materia di valutazione del personale, sicché è plausibile che si tratti di comportamenti, anch’essi, che si reiterano nel tempo.

  43. Comunque, anche nella fattispecie in esame si può avere l’effetto estintivo, qualora – decorso il periodo biennale di disponibilità – il lavoratore non sia stato ancora ricollocato in servizio: in tal caso, “il rapporto di lavoro si intende definitivamente risolto a tale data” (art. 34, 4° co., d.lgs. 165/2001). Ove sia allocato presso altra amministrazione, il lavoratore può essere adibito a mansioni e qualifica diverse da quelle possedute, eventualmente anche inferiori. Sempre a norma dell’art. 55-sexies, 2° comma, è “il provvedimento che definisce il giudizio disciplinare” a stabilire “le mansioni e la qualifica per le quali può avvenire l’eventuale ricollocamento”. Si ritiene che, attraverso tale previsione, il legislatore abbia, per quanto indirettamente, risolto in senso affermativo il problema della legittimità di sanzioni comportanti un mutamento definitivo del rapporto di lavoro. Inoltre, è previsto un aggravamento della posizione del lavoratore rispetto alla condizione generale del lavoratore in disponibilità: evidentemente in ragione del carattere disciplinare di questa misura, è previsto che, durante il periodo di disponibilità, il lavoratore non abbia “diritto di percepire aumenti retributivi”, mentre l’art. 33, 8° co., d.lgs. 165/2001, in caso di collocamento in disponibilità susseguente ad una situazione di esubero di personale, non esclude dal computo dello stipendio gli eventuali aumenti sopravvenuti nel corso del biennio.

  44. d) Responsabilità per mancato esercizio o decadenza dell’azione disciplinareart. 55-sexies, 3° comma Tale illecito sembra presupporre l’esistenza di una catena d’infrazioni/sanzioni, nella quale si sappia “chi controlla i controllori e poi i controllori dei controllori”. Al fine di garantire la funzionalità di un siffatto meccanismo ‘a cascata’, l’art. 55, 4° co., d.lgs. 165/2001 dispone che le “determinazioni conclusive” del procedimento disciplinare avviato nei confronti del dirigente autore di tale infrazione siano “adottate dal dirigente generale o titolare di incarico conferito ex art. 19, co. 3”. Che significa questo nella Scuola? Contenuto dell’infrazione. È quasi come se si intrecciassero due giudizi disciplinari. Prioritariamente bisogna accertare l’esistenza di una condotta disciplinarmente rilevante (ossia equivalente ad un’infrazione) rimasta impunita. Per quanto oggettiva e palese possa essere la rilevanza disciplinare di tale condotta, occorrerà comunque basarla su un qualche principio di prova, si direbbe in gergo processualistico. Non si capisce quando il fumus dell’illecito potrà dirsi sufficiente a ritenerlo accertato in termini oggettivi e palesi.

  45. Esaurita questa fase, bisogna valutare le ragioni del mancato esercizio o della decadenza dell’azione disciplinare, in relazione ad un eventuale “giustificato motivo”. Si tratta di valutare se, di fronte ad una infrazione disciplinare, la punizione sempre e comunque l’unico modo per ripristinare l’efficienza. La legge prevede pure che il mancato esercizio o la decadenza dell’azione disciplinare possa dipendere da valutazioni sull’inesistenza dell’illecito “irragionevoli o manifestamente infondate”. Anche qui siamo di fronte a concetti abbastanza vaghi, rimessi ad un’ampia discrezionalità interpretativa. È indubitabile che la valutazione della sussistenza dell’illecito disciplinare implichi un certo grado di perizia/capacità professionale, ma non è affatto semplice individuarne con esattezza la misura minima necessaria. Ad esempio, un utente lamenta un disservizio da parte del lavoratore Tizio, ma il suo collega e amico Caio nega tale circostanza: è sempre e comunque ‘irragionevole’ aver deciso di credere a quest’ultimo, anziché all’utente?

  46. e) Il licenziamento disciplinare per le infrazioni elencate dall’art. 55-quater, 1° co. Si applica “comunque” il licenziamento in una serie di casi ivi indicati. L’avverbio fa pensare ad una applicazione automatica, e senza margini di discrezionalità nella valutazione dei profili soggettivi della responsabilità, ma una simile lettura contrasterebbe con l’essenza di ogni sanzione disciplinare, quale atto conclusivo del relativo procedimento, che non può mai essere omesso, alla luce dell’orientamento della Corte cost., che ha censurato ogni automatismo espulsivo. Pertanto, anche per queste infrazioni si dovrà aprire (e concludere) il normale procedimento disciplinare, al termine del quale potrà essere irrogata la sanzione del licenziamento. Pur non essendo azzerata, la discrezionalità insita nella valutazione di proporzionalità tra sanzione e infrazione, è qui ridotta, semplicemente perché le condotte illecite sono individuate in maniera analitica. Ma allora qual è il senso della previsione legale di singole infrazioni che conducono “comunque” al licenziamento? Sul piano tecnico-giuridico, la legificazione di alcune infrazioni comprime lo spazio regolativo dei codici disciplinari di fonte negoziale: questi ultimi non potranno impedire che le condotte vietate dalla legge siano sanzionabili con il licenziamento.

  47. Quasi tutte le infrazioni legali riproducono quelle contrattuali. Ad es.: l’assenza ingiustificata per un certo numero di giorni, ovvero la mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dalla P.A. ripropone una classica infrazione disciplinare tipizzata dai CCNL, anche se abbassa, in misura consistente, il tetto oltre il quale può scattare il licenziamento in tronco (bastano più di 3 gg., anche non continuativi nell’arco di due anni, oppure 7 gg. nel corso degli ultimi 10 anni). Comunque, per quanto circostanziate possano essere le infrazioni, rimangono inevitabili (anche se contenuti) margini di elasticità: “l’assenza può essere più o meno ingiustificata, la falsità può essere più o meno grave”. Lo stesso dicasi, a maggior ragione, per l’ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze di servizio, anch’esso previsto come infrazione sanzionata con il licenziamento nei vigenti contratti di comparto, ed anch’esso esposto a margini di opinabilità: quando sono “motivate” le esigenze di servizio che inducono l’amministrazione a disporre il trasferimento e quando - specularmente – è “ingiustificato” il relativo rifiuto da parte del lavoratore?

  48. f) Il licenziamento disciplinare per scarso rendimentoart. 55-quater, 2° co. La fattispecie si consolidò nel TU del ‘57, ove fu regolata la dispensa dal servizio per “persistente insufficiente rendimento”, di cui si rendeva autore l’impiegato che, previamente ammonito, riportasse al termine dell’anno nel quale era stato richiamato, un qualifica inferiore al ‘buono’. Non si trattava di un provvedimento disciplinare, ed era, quindi sottratto alle relative disposizioni procedurali. A garanzia dell’impiegato, gli era però assegnato un termine per presentare le proprie, eventuali, osservazioni, e gli era riconosciuta la facoltà di essere sentito personalmente dal cda. Negli anni successivi, la prassi registrò una serie di abusi da parte della P.A., che utilizzò in vari casi l’istituto della dispensa per insufficiente rendimento, certamente caratterizzato da minori garanzie per l’impiegato rispetto al provvedimento disciplinare, per sanzionare infrazioni disciplinari del dipendente. La contrattualizzazione del p.i. trascinò lo scarso rendimento nel terreno della responsabilità contrattuale”, ove il licenziamento per scarso rendimento è giustificabile in base alle regole comuni, ossia alla nozione legale di giustificato motivo ex art. 3, L. 604/1966

  49. I contratti collettivi fanno riferimento al “persistente insufficiente rendimento” La nozione legale di scarso rendimento è più ristretta, perché postula un giudizio costituente il momento finale di un meccanismo di valutazione predeterminato per legge o per contratto, l’infrazione di rango contrattuale non richiede che il giudizio in questione sia il risultato di una operazione formalizzata. Sotto questo profilo, non è affatto certo che la graduatoria di merito finalizzata alla misurazione e valutazione della performance ai fini della corresponsione dei trattamenti economici accessori potrà fornire informazioni utili ai fini dell’inadempimento contrattuale”, per la semplice ragione che “i dipendenti collocati nella fascia bassa della graduatoria complessiva di ente, destinata a non percepire salario di produttività, non possono automaticamente essere considerati inadempienti a fini disciplinari. Insomma, bassa produttività e scarso rendimento sono nozioni tra loro differenti, che la riforma Brunetta mostra, invece, di confondere.

  50. g) Il licenziamento disciplinare del medico per illeciti connessi all’assenza ingiustificata del lavoratoreart. 55-sexies, 3° comma Omissis

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