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LIBERI DI RACCONTARSI

LIBERI DI RACCONTARSI. NOI, RAGAZZI DELLA 2^A a.s. 2010/2011. PREMESSA.

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LIBERI DI RACCONTARSI

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Presentation Transcript


  1. LIBERI DI RACCONTARSI NOI, RAGAZZI DELLA 2^A a.s. 2010/2011

  2. PREMESSA Giunti in seconda media, buona parte delle competenze di base sono state acquisite e questo conforta molto gli alunni di fronte al fatidico foglio bianco da riempire. Tuttavia, proprio in questa fascia d’età, i ragazzi diventano emotivamente più fragili: le relazioni, sia tra coetanei che tra adulti e ragazzi, spesso si fanno più complesse e la ricerca della propria identità lascia in ciascuno dei margini di dubbio, se non di non accettazione. Il programma di Italiano tiene appunto in considerazione questa ambivalenza, per cui buona parte dell’anno viene dedicata a letture e produzioni di testi di tipo personale. La lettera informale, il diario e il testo autobiografico diventano allora degli strumenti che vanno ben oltre il loro valore didattico. Solo conoscendo la propria storia, le proprie risorse e i propri limiti si diventa consapevoli di se stessi e, acquistata la fiducia necessaria,  è possibile condividere con altri il piacere di stare insieme per imparare e per crescere. Chi si cimenta nella scrittura autobiografica è costretto a riflettere su se stesso, a trovare il tempo, nella vita frenetica del quotidiano vivere, di fare silenzio dentro di sé per ragionare sul percorso di vita compiuto, sulle proprie scelte. Il testo autobiografico, pensato per essere letto dagli altri, spinge i ragazzi a scrivere “bene”, ma nello stesso tempo a condividere con i lettori le esperienze, i pensieri, le emozioni della propria vita, dopo averli selezionati con cura, in base ai propri interessi e alla propria sensibilità. Ma i testi personali sono molto utili anche al lettore, che nell’ambito della classe ha modo di conoscere meglio i propri compagni e di scoprirne magari aspetti nascosti, e in una visione più ampia ha la possibilità, attraverso un processo di immedesimazione, ovvero calandosi nei panni del protagonista-scrittore, di pensare alla propria vita derivandone degli insegnamenti.   La parola evoca emozioni profonde, ma costruisce anche sentimenti stabili.E il ragazzo capisce in fretta che scrivere la propria autobiografia non è un lavoro di uno specialista, ma è opera di chiunque abbia scelto di dirsi la verità e di aprirsi agli altri. I ragazzi della 2^A con i loro ricordi e le loro esperienze ci fanno entrare per un momento nella loro vita. Sta a noi, come lettori, essere discreti e avere la sensibilità di cogliere i sentimenti di ciascuno, non certo per giudicare l’autore-protagonista, ma per arricchire un po’ noi stessi. Mariangela Cantele

  3. Non ci vedo più Mi ricordo di un venerdì. Ero tornato da calcio e avevo deciso di andare in bici a fare una passeggiatina con mio fratello. Lui aveva un pallone in mano, ero davanti casa mia e c’era molto ghiaino. Mi si è bloccata la catena, mentre stavo pedalando forte, e sono caduto di faccia. Sono slittato in avanti almeno per un metro e mezzo, grattandomi la parte superiore del naso e la parte inferiore dell’occhio sinistro che dopo un po’ ha cominciato a gonfiarsi. Anche il naso si era ingrossato,ma fortunatamente dopo mezz’ora si era già sgonfiato. Sono caduto perché mi è entrato del ghiaino nella catena. Ho fatto in tempo a coprirmi l’occhio destro e ho avuto molta fortuna perché non mi sono fatto male proprio all’occhio, ma un po’ più sotto. Avevo anche un po’ di febbre che poco dopo mi è passata. Quando ero caduto avevo subito pensato di non poter più vedere: di solito nei film succede così. Invece l’indomani sono andato a vedere la partita della mia squadra e l ‘allenatore mi ha chiesto di giocare. Io gli ho detto di sì e ho fatto due goal. Abbiamo vinto due a zero e abbiamo festeggiato, anche perché tra l’ altro era il compleanno dell’ allenatore. A scuola mi sono beffato di Francesca e Giada. Ho detto loro che non ci vedevo con l’occhio sinistro e loro mi hanno creduto, dimostrandosi assai gentili. Si è sgonfiato tutto dopo qualche giorno e mi era rimasta solo una ferita sul naso.

  4. Dovrei dire che mi è andata proprio bene! Dovevo solo mettere una pomata negli occhi, che mi faceva vedere però tutto annebbiato. Comunque è stata un’avventura dolorosa e spero che non mi capiti più: preferisco sbucciarmi il ginocchio che mettermi quella terribile pomata. Mio fratello, quando mi ha visto così, non mi è più venuto vicino finché non mi è passato tutto. Mia sorella, invece, appena mi vedeva cominciava a ridere, anche se non so perché. Forse sembravo metà cinese non riuscendo ad aprire completamente le palpebre. Affo Amadou

  5. "IL MIO PRIMO CONCERTO" Avevo già compiuto i 12 anni e con grande fretta ormai si avvicinava anche il 30 luglio! Il 30 luglio per me era una data importante perché avrei dovuto fare il mio primo vero concerto con la banda. Certo, c’era già stato quello per il 25 aprile, ma quello era uno come tutti gli altri. Invece questo era “speciale “in un certo senso! Quella sera ero tremendamente agitata, non perché era il primo concerto che facevo ma perché Alberto, un mio compagno, mi aveva detto che i clarinetti erano in prima fila e quindi davanti al maestro. Ecco perché avevo tanta paura: se avessi suonato una nota sbagliata tutti mi avrebbero sentito! Mentre tutti questi pensieri mi perseguitavano, finii di prepararmi. Dovevo, per l’occasione, indossare una camicia bianca, dei pantaloni neri e una tremenda cravatta che per poco non mi strozzava. Però c’era qualcosa che non andava: fuori il tempo era un po’ coperto, faceva insomma un po’ “freschetto” e non mi andava giù l’idea di indossare i pantaloncini con quel freddo. Ma ormai mi ero preparata e non mi restava che indossare gli orecchini a “chiave di violino” perché li consideravo dei portafortuna. Mentre continuavo a guardarmi allo specchio, chiedendomi se non avessi dimenticato qualcosa, la voce tuonante di mio padre mi richiamò: “Valentina, sei pronta sì o no?!?”. Allora, sapendo che se faccio tardi mio padre si arrabbia come una furia, mi sono fiondata giù per le scale e per poco non sono caduta. Sono arrivata alla sede della banda con 5 minuti di anticipo e così ho aiutato gli altri a portare le sedie, i leggii e ovviamente il mio clarinetto e lo schedario.

  6. Dopo mezz’ora era tutto pronto. Intanto abbiamo iniziato a montare gli strumenti e a scaldarli. Ma il freddo cominciava a farsi sentire e ci ha costretti a indossare le giacche per non rimanere irrigiditi. Verso le 20.30 cominciava ad esserci un po’ di gente; alla fine non c’erano più sedie a disposizione e quindi le persone hanno dovuto rimanere in piedi. Quando abbiamo visto che il pubblico era al completo abbiamo, cominciato a suonare e, se la memoria non mi inganna , abbiamo aperto il concerto con “I Pifferai”, un brano difficile che noi secondi clarinetti non abbiamo però suonato. Anzi, l’abbiamo suonato in “playback”! Dopo molti altri brani, tra i quali “Quando, quando, quando” e, il mio preferito,”Go West”, abbiamo concluso il concerto con “Concerto d’amore”. Sotto gli applausi del pubblico abbiamo risuonato “Film Festival”, un insieme di brani dello stesso autore. Durante tutto il concerto, ero molto emozionata e sprizzavo energia: mi sono anche fatta i complimenti da sola perché non avevo fischiato neanche una volta né avevo suonato una sola nota sbagliata. Ero così agitata che non ho neppure sentito il freddo che c’era in quella serata. Subito dopo ho rimesso tutto in ordine assieme agli altri e alla fine siamo andati tutti a mangiare la pizza!! Credo di essere rimasta lì fino a mezzanotte, ma poi la stanchezza ha preso il sopravvento e non vedevo l’ora di andare a letto. Alla fine, verso l’una, mi sono addormentata felicissima per quella splendida giornata. Il concerto mi ha aiutata molto perché ho capito che non bisogna lasciarsi prendere dalla paura ma fidarsi di se stessi. Se si impara ad affrontare la paura, nelle esperienze future si è già preparati e si sa come comportarsi. VALENTINA AVA

  7. Il Mio Primo Saggio Di Chitarra Wow! Se ci penso è già passato quasi un anno dal mio primo saggio di chitarra. Tutto è iniziato quella mattina quando, come sempre, mia mamma mi ha svegliato. Mi sono preparato e sono andato a scuola, ma quel giorno io avevo qualcosa di diverso. Infatti mi ero rotto tre dita del piede destro il venerdì precedente e quindi ero con le stampelle. Quando sono arrivato a casa ho mangiato, poi ho fatto quei pochi compiti che dovevo eseguire e poi ho passato tutto il pomeriggio a esercitarmi sulle mie due canzoni. Quella sera ero … eccitatissimo è dir poco! La sala era colma, ma non c’erano solo le famiglie dei chitarristi: c’erano anche altre persone, come il fratello dell’insegnante. Il primo a suonare è stato Alessandro, poi è toccato a me. La prima canzone che ho suonato è stata“Gianna”; poi, dopo quella, ho iniziato con il “Boogie Boogie”. Dopo di me hanno suonato altri, ad esempio Thomas che portava le mie stesse canzoni. L’unica che, pur facendo il corso, non ha suonato è stata mia sorella: infatti era riuscita a convincere l’insegnante. Così ha partecipato solo come spettatrice. In quella serata c’è stata anche una parte divertente: Marta stava suonando, ma ha sbagliato un accordo. Normalmente si dovrebbe continuare a suonare, invece lei si è fermata e ha detto: ”Ho sbagliato”. Così la sala si è riempita di una sonora risata di gruppo.

  8. Alla fine della serata gli spettatori si sono divisi in gruppetti e abbiamo iniziato a chiacchierare. Sono andato a casa alle 10 e mezza e mi sono divertito un mondo! Insomma, quella serata non la scorderò mai e poi mai! Spero che anche quest’anno si ripeta l’esperienza perché mi ha fatto provare l’emozione di avere davanti a me un pubblico e mi ha insegnato ad arrossire un po’ meno quando mi esibisco! ANDREA D’INCA’

  9. DALLE ELEMENTARI ALLLE MEDIE Ricordo bene le elementari di Santa Caterina. Un piccolo edificio giallo, con delle piccolissime aule e una minuscola palestra, ma con una simpatica mensa e una cucina da cuochi professionisti. Poi c’erano i 40 alunni, le sette maestre e Adriana, la mia bidella preferita! Anche se piccola, quella scuola però è indimenticabile, perchè in quel luogo tutto era divertente!!! Quando però mio fratello è passato alle medie credeva che tutto il mondo girasse intorno a lui e io cominciavo a detestarlo. Ogni volta che mi vedeva, per salutarmi mi diceva:”Ciao bocia delle elementari!” Mmmmmmm …. che rabbia!!!!! La voglia di mollargli una sberla cresceva ogni giorno di più, però mi trattenevo perché sapevo che lui era più forte di me, quindi ci avrei rimesso io. E poi mi chiedevo cosa avessero le medie che non avevano le elementari! Certo, mi sbagliavo. Infatti verso la fine dell’anno scolastico io e la mia classe siamo andati a visitare le “famose medie”. Eh sì … mio fratello Francesco aveva ragione. Le medie avevano qualcosa in più delle elementari: aule più grandi e molti più alunni, l’aula informatica con il triplo dei computer di S. Caterina; per non parlare dell’aula LIM. Non avevo mai visto una lavagna “ touch screen”! E poi tutte quelle aule di laboratorio, tipo quella di musica o quella di scienze, nella quale ho lasciato gli occhi! …

  10. E la palestra! Era una decina di volte più grande della nostra. Aveva anche il quadro svedese: la professoressa ce l’ha fatto provare. Ammetto che all’inizio avevo un po’ di paura, infatti non era mia intenzione buttarmi giù! Poi però mi sono tranquillizzata, sapendo che sotto c’erano dei materassi. Mi sono buttata e ora posso dire che è stata la più emozionante esperienza motoria che io abbia mai fatto!!! Appena siamo ritornati a S. Caterina io e le mie amiche non vedevamo l’ora di passare alle medie. Gli ultimi mesi sembravano non finire mai. Finalmente, però, è arrivato il mio tanto atteso primo giorno di scuola alle medie. Da una parte ero felice perché era quello che volevo, ma dall’altra ero un po’ preoccupata … continuavo a chiedermi quanti compiti ci avrebbero dato … beh speravo pochi!!! Appena arrivata ho visto Giada e Francesca e mi sono unita subito a loro. Ci hanno portati nella palestra dove c’era un pagliaccio che faceva le sue esibizioni. A me non sono mai piaciuti i pagliacci, perché ho sempre pensato che sono dei buffoni senza cervello! Però devo ammettere che quello era bravo!!! Sinceramente , poi, non ricordo bene quello che abbiamo fatto. Però so con certezza che quel giorno mi ha cambiato la vita! Infatti in quei momenti ho capito che ero abbastanza matura da poter prendermi le mie responsabilità. Mi sentivo proprio più grande!!! Elisabetta Pozza

  11. IL NUOVO ARRIVATO Quando tornai a casa da scuola, vidi i miei genitori seduti a tavola in cucina, con il sorriso in viso e con la tremarella che si stava impossessando di loro. Allora appoggiai la cartella e cominciai a farmi strane idee. Mi dissero di sedermi con loro e di ascoltarli molto attentamente. Ma proprio mentre papà me lo stava per dire , entrò la nonna che felicemente esclamò:” Sarò nonna di nuovo!”. Io afferrai il concetto. La mamma aspettava un bambino! Avevo solo sette anni e per me quell’ idea di avere un fratellino vero, da accudire al posto di un bambolotto, era un’ emozione fantastica. La notizia si diffuse in fretta, così mia mamma e il suo pancione ricevettero quasi ogni giorno coccole e carezze da tutti, ma soprattutto da me, mio papà e mia nonna, che stava veramente impazzendo. Così gli ultimi quattro mesi decise di trasferirsi da noi per aiutare la mamma nelle faccende domestiche e per star dietro a me e a mio papà. I giorni passavano e il pancione cresceva sempre di più. Io cercai di stare più vicino possibile a mia mamma, ma lei non voleva che quel suo pancione potesse ostacolare la mia gioventù, impedendomi di giocare, andare al mercato con papà o sognare. Lei continuava a ripetermi con quella sua voce tenera: ”Non pensare a me, pensa a vivere la tua gioventù, perché se tu sei felice lo sono anch’ io!”. Quei quattro mesi passarono in un batter d’occhio, e il pancione cresceva, cresceva, fino quasi a scoppiare.

  12. Proprio la sera in cui aveva nevicato di più si ruppero le acque. La mamma chiamò mia zia Giuliana per accompagnarla all’ospedale. Mentre preparavamo la valigia, lei cercò di contattare papà. Ma nelle strade del Brennero il cellulare non prende. Così, quando rispose, prese così tante parole che nemmeno io, con tutti i guai che ho combinato, avevo mai preso. La mamma partì con un metro di neve. La macchina non andava avanti e la “ Maria Levatrice” ( l’ostetrica del paese) cercò di calmarla in tutti i modi: per un pelo rischiava di partorire in macchina! Nicola nacque il 19 gennaio 2005. In quel momento sentii che niente sarebbe rimasto più come prima. Quando la mamma tornò a casa, trovò un cartellone enorme, fatto da me e da mio papà, con scritto: “ Bentornati a casa a mamma e al nostro piccolo Nicola!!!” Ci furono fiocchi blu in tutte le finestre e regali da parenti in tutta la casa. Nicola cresceva, cominciò a fare i suoi primi passi e a dire le sue prime paroline. Era nero, piccolo, con la pelle scura. Adesso è biondo, tondo, riccio e con la pelle chiara! Anche se non andiamo molto d’accordo, non rimpiangerò mai quel 19 gennaio tanto atteso, perché quel marmocchio è riuscito a cambiarmi la vita per sempre! Francesca Ronzani

  13. LA SVOLTA La mia vita, come quella di tutti gli altri, ha avuto momenti di forti emozioni. E di sicuro il mio primo esame di danza classica rad non è da scordare. Faccio danza da molti anni e il 30 settembre dell’anno scorso è stato il giorno che ha segnato effettivamente la mia vita. L’ultimo di agosto ero collegata a internet e stavo guardando il mio oroscopo: c’era scritto che se avessi avuto un po’ di pazienza, qualche bella notizia sarebbe arrivata. La pazienza non è però servita a molto, perché subito dopo la mia maestra di danza mi ha chiamato e mi ha detto: ”Very very good! Sei stata ammessa all’esame!!!” Shock totale! Per i primi secondi sono rimasta lì senza dire una parola; non sentivo nessuna emozione. Piano piano però ho ripreso coscienza. Era il primo dei tanti sogni che avevo fin da piccola: partecipare a un esame. Ma così improvvisamente non me lo sarei mai aspettata. L’esaminatrice veniva apposta da Londra:-motivo in più per andarci; -motivo in più per avere ancora più paura. Ho fatto sapere la cosa solo in famiglia, e, risposta ovvia… ho confermato l’iscrizione. Per tutto quel mese non ho fatto altro che ripetermi tutti i passi che dovevo fare: petit retirè, arabesque, escapè…. Dis- o graziatamene è arrivato quel giorno. Mi sono presentata due ore prima dell’inizio dell’esame, mi sono cambiata e insieme alle altre sono andata a riscaldarmi in una piccola saletta. Però non potevo esibirmi se prima non avessi avuto l’abbraccio dei miei genitori. Il matto di mio papà mi ha detto: ”Mi raccomando, l’importante è vincere e umiliare il secondo”.

  14. Sono entrata nella saletta: era piccola e accogliente perché era calda e munita solo di un piccolo stereo; deliziosa per fare riscaldamento. Anche se l’ambiente era rilassante, mi sentivo il cuore uscire dal petto per i troppi e frenetici battiti. Io, l’imbranata del gruppo, al posto di muovermi continuavo a schiacciare la pallina anti-stress che avevo in mano. Ma, a forza di lamentele delle mie compagne, mi sono decisa anch’io. Irina, la nostra pianista, ci ha annunciato che mancavano solo 15 minuti. Ho ancora oggi davanti agli occhi l’immagine di quel momento, scolpita nella mente: io che da ogni poro della mia pelle sprizzavo raggi dorati di felicità. Ero felice, sì, ma la paura superava ogni cosa…. Ad un certo punto è suonata la campanella: era il MIO turno!!! Sono entrata nella maestosa sala esami. Lì ho fatto BOOM: la paura, la tensione … erano tutte emozioni inutili ed era come se un vagone merci le avesse caricate e portate via tutte. Ho iniziato a danzare… Qualche giorno dopo sono arrivati i risultati….. Non ci potevo credere; avevo preso il 76%!!! Fate conto che il 50% è un sufficiente!!! Quel giorno, per me tanto importante, ha rappresentato la svolta della mia vita. Adesso ho l’opportunità di andare a danzare o posso partecipare a stage in giro per l’Italia. Ma soprattutto ho capito come gestire le emozioni. Non bisogna mai tirarsi indietro solo perché la paura ci imprigiona. Grazia Mancini

  15. La mia prima vera e propria giocata a soft-air Era un sabato qualunque ed era da una settimana che torturavo mio papà per andare a fare soft-air (guerra simulata). Quando l’ho convinto non mi sembrava neanche vero. Sono tornato a casa da scuola, ho mangiato in fretta e mi sono preparato. A mio papà ho dato la tuta da Snipers (era una tuta per mimetizzarsi). Mentre facevo gli ultimi preparativi nel fucile, mio papà e andato a nascondersi. Quando sono uscito di casa pioveva, era scuro e faceva freddo, ma non mi importava. Avevamo deciso di andare sul monte sopra casa mia, il Bruniche. Mentre mi incamminavo per andarlo a trovare, ho visto una raffica di pallini arrivarmi contro. Però per fortuna li ho schivati. Allora mi sono subito buttato a terra, anche se era bagnato. Non era riuscito a prendermi, ma quasi. Io ovviamente non lo vedevo e steso a terra sono strisciato fino ad un albero. Ma non riuscivo proprio a vederlo perché aveva la tuta mimetica. Ne ha letteralmente approfittato per scappare. Io sono andato su lentamente ed ecco che era arrivato anche il mio momento per sparare. Sono riuscito a vederlo e pian piano l’ho preso alle spalle: ci ero riuscito, finalmente! Gli ho sparato contro e l’ho preso. Ma lui è stato più furbo di me perché si è messo dietro un pino. Anche se era bello grosso, però non ci stava dentro tutto ed io sono riuscito a colpirlo nuovamente. Ci siamo poi fermati per prendere fiato. Mentre stavamo parlando e ricaricando i fucili, mia mamma mi ha chiamato e mi ha detto che era arrivato Samedin. Con tutta la fatica che ci avevo messo ad andare su! Ora dovevo ritornare giù.

  16. Intanto mio papà si è nascosto e io sono andato a prendere il fucile anche per Samedin. Io e Samedin ci siamo incamminati per una stradina tutta piena di sassi. Mentre avanzavamo, abbiamo sentito degli spari provenienti dal bosco. Intanto pioveva sempre di più, anche in mezzo ai pini. Camminavamo lentamente proprio perché non ci colpisse. Abbiamo sentito degli altri spari e ci siamo buttati tutti e due a terra, dietro un pino. Io come fucile avevo l’M4 Sistem, mio papà aveva l’M4 e Samedin l’APS 02. Mentre cercavamo di scovare mio padre è cominciato a diluviare. Ho sentito Samedin sparare e mi ha detto che aveva visto qualcosa muoversi. Ma io sinceramente non avevo visto niente. Stavamo avanzando sempre più, ma ad un cero punto ho sentito: ”Fermi!”. Io mi sono guardato attorno e non ho visto nessuno. Poi ho alzato la testa e ho visto mio papà su un albero sopra di noi. Samedin, più veloce di me, è andato a prendere la macchina fotografica e abbiamo scattato delle foto. Questa esperienza è stata molto bella ed emozionante, anche se pioveva, e mi è servita per imparare un po’ più la tattica di gioco e per capire come muovermi. Adesso ne stiamo organizzando un’altra. GARZOTTO MICHELE

  17. IL MIO PRIMO SABATO SERA Mi ricordo ancora la mia prima sera fuori casa. Era sabato pomeriggio e pioveva a dirotto, mentre io e mio cugino eravamo seduti sotto il suo portico a chiacchierare di cose nostre. Tutto ad un tratto mio cugino mi ha domandato se avevo qualcosa da fare quella sera. Io gli ho risposto che non avevo impegni e lui mi ha detto che allora saremo andati a Lusiana, al Bar Centrale e che per le otto sarebbe passato a prendermi. Mi ha detto anche di non preoccuparmi se anche fosse piovuto forte perché sarebbe passato con la sua macchina. Io ero contentissimo di trascorrere la serata fuori casa per la prima volta ed ero molto agitato perché pensavo a tutte le cose che avrei fatto con mio cugino e con i suoi amici. Erano ormai le sette e mezza quando avevo finalmente deciso di andarmi a preparare. Mentre mi cambiavo, continuavo a pensare a cosa avrei fatto quella sera. Erano le otto e io ero lì alla finestra di casa mia a guardare la pioggia che scendeva e ad aspettare mio cugino che sembrava non arrivare più. Quando ho sentito il rumore del suo motorino salire la strada della contrada, sono rimasto perplesso. Ma non doveva arrivare con la macchina? Sono andato fuori e gli ho detto “Ma sei matto? Vuoi davvero andare fino a Lusiana in motorino?” E lui mi ha risposto soltanto: “Si”.

  18. Ho recuperato il casco e siamo partiti. Quella sera, in motorino, faceva un freddo cane! Ma comunque, anche se un po’ bagnati, a Lusiana siamo arrivati salvi. Entrati in bar, c’era una confusione pazzesca: gente ovunque, musica altissima e tutti i suoi amici che ci aspettavano. Dopo una breve chiacchierata abbiamo cominciato a divertirci, giocare a calcetto, a briscola e a poker. E poi, tutti gli scherzi che faceva Giovanni a Michael! Quelli sì che erano divertenti! Dopo due ore che eravamo lì, mi sono accorto che era entrato Simone con suo papà. Io appena l’ho visto gli sono andato vicino e abbiamo chiacchierato per un’ora. In un batter d’occhio è arrivata mezza notte e, dopo i saluti e l’ultima partita, è arrivata l’una di notte! Forse era meglio tornare a casa. Sono arrivato che ero bagnato dalla testa ai piedi. Comunque il mio primo sabato sera fuori casa è stato magnifico e spero di passarne molti altri in compagnia di mio cugino e di tutti i suoi, ma anche i miei, amici. Quella sera, la mia prima che ho passato senza la famiglia, mi ha insegnato ad essere più responsabile di me stesso. Maicol Gasparini

  19. UNA GARA DOPO IL LAVORO L’anno scorso, alla festa degli Gnocchi, io e Jimmy eravamo stati incaricati di inscatolare le frittelle e di imbiancarle con lo zucchero a velo. Diego, Gianmarco e Mattia dovevano invece servire. Yuri è venuto una sola volta: ci dava una mano con lo zucchero a velo, ma era sbadato. Per fortuna è rimasto con noi solo un giorno. Il primo giorno abbiamo fatto una scorta di acqua, guanti, cappello e grembiule. Le frittelle erano bollenti! Per fortuna avevamo i guanti doppi, ma qualche volta con il calore si bucavano lo stesso. Ci divertivamo un mondo e ridevamo per qualunque battuta; non solo noi, anche tutti gli aiutanti si stavano divertendo. E tutto questo si è ripetuto per altri due giorni. Il terzo giorno, visto che avevamo tutti la bicicletta, abbiamo deciso di fare una gara tra di noi. Siamo partiti per una prova e per testare la pista. Io sono partito velocemente. Ero alla terza curva quando la bici mi è scivolata e sono rotolato a terra, facendomi molto male. Dietro di me anche Jimmy è andato fuori strada ed è ruzzolato vicino a me. Io e gli altri ridevamo come matti (compreso Jimmy). Rialzati, siamo tornati alla partenza: eravamo in sei concorrenti, tutti in fila. Alberto ha gridato ad alta voce: ”Tre, due, uno via!!”. Siamo partiti tutti sparati: io ero terzo, Jimmy quarto, Yuri secondo e Diego primo, perché aveva barato prendendo una scorciatoia. Giammarco era solo quinto e Mattia sesto. Io ho superato in una curva Yuri e in un’altra Diego. Ma all’improvviso è sbucato fuori Jimmy che è arrivato primo! Pochi centimetri e sarei arrivato primo io!!! Il peggio è stato però che mio padre mi ha visto e mi ha sgridato, dicendomi che non sarei andato alla festa per due giorni. Erik Pozza

  20. IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA La scuola elementare stava per cominciare ed io ero anche abbastanza contento di ritrovare gli amici, che non vedevo dall’asilo, e anche perché era il mio primo giorno e mi piaceva questa idea. Mi ricordo quella mattina di settembre: mi alzai pieno di sonno e mia madre mi disse che dovevo prepararmi perché la scuola mi attendeva. Io ero abbastanza agitato, come mi capita qualche volta adesso quando devo essere interrogato, ma mi alzai senza fare storie. Non sapevo cosa portare e una cartella sulla schiena mi sembrava inutile il primo giorno, quando di solito si fa festa. Tuttavia avevo paura di trovarmi là a scuola senza il necessario: ero molto ansioso su cosa mettere nell’astuccio e in cartella. Mia mamma mi diceva di fidarmi, di non portare tutto, solo un astuccio, una matita, dei colori, la gomma e un quaderno. Ma comunque io non ero tranquillo. A scuola l’agitazione mi passò subito, perché trovammo davanti all’ingresso i miei amici con le loro mamme e quindi mi aggregai a loro. Le mamme ci accompagnarono dentro, dove trovammo le insegnanti, le bidelle e tutti gli altri ragazzi delle classi successive che gridavano e saltavano dappertutto. Le nostre insegnanti ci accolsero subito dolcemente, dicendoci di metterci a giocare finché non fossero arrivati tutti. Noi ci riunimmo in un angolino a parlare, mentre sbucavano ragazzi da tutte le parti che giocavano e urlavano, facendo una confusione bestiale.

  21. Le nostre mamme dovevano venire a prenderci alle undici e un quarto e noi attendevamo già con ansia quell’ ora. Ma in fondo eravamo contenti anche di rimanere, perché le maestre erano buone. Quando tutti furono arrivati, le nostre maestre ci potarono in un’aula dove ognuno scelse il suo banco. Quella sarebbe rimasta la nostra aula per l’intero anno scolastico. Avevamo i banchi a due a due attaccati ed io ero in coppia con Emanuele. Quando ci fummo tutti accomodati, le insegnanti ci spiegarono cosa portare e cosa comprare per i giorni successivi di scuola. Poi ci fecero disegnare: era ciò che volevamo. Dopo un po’ ci raggrupparono tutti in cortile, per festeggiare il primo giorno di scuola, mangiando e bevendo tutto quello che ognuno di noi aveva portato. Lì giocammo tutti insieme e decidemmo le prime conoscenze. E mentre ci divertivamo vennero le undici e un quarto: tutti a casa! Simone Ronzani

  22. Grazie,papà Io sono sempre andata bene a scuola. Non ricordo di aver preso un’insufficienza, e di questo ne sono felice. Però c’era qualcosa che non andava: studiavo per i voti, mi interessavano solo quelli. Oggi invece “sto sui libri” perché voglio imparare e penso che se anche prendessi un sette, un sei, o potrebbe anche essere un’insufficienza, dovrei solo capire cosa ho sbagliato e dirmi: ”Bene, ripassiamo queste cose.” Prima, non avrei MAI reagito così, anzi, ne avrei fatto un dramma. Ma ora è cambiato tutto e devo ringraziare mio papà perché mi ha fatto capire tutto ciò… Era giovedì sera, a scuola avevamo fatto il rientro. Io, come tutti i miei compagni, ero molto stanca. Il pullman mi aveva portata dalla nonna Maria e in quel momento, triste, pensavo che a casa c’erano di nuovo i libri per i compiti! Avrei dovuto farli quella sera e speravo che la mamma mi venisse a prendere presto. Invece è arrivata alle 19.30! A casa, mi sono seduta sulla sedia e ho cominciato a fare i miei compiti… Dopo mangiato, la mamma era andata a canto e mio papà era rimasto a casa. Lui, siccome è molto testardo e cocciuto, continuava a ripetermi: ”Marta, va in camera a fare i compiti. Qui in salotto, con la televisione accesa, non riesci a concentrarti”. Io non ce la facevo più, avevo avuto una settimana di verifiche e volevo solo andare a letto; ma dovevo studiare francese perché l’indomani avevo la verifica e anche tanta paura di prendere un brutto voto, lo ammetto.

  23. Facevo i compiti con la testa appoggiata alla mia mano sinistra e dalla stanchezza scrivevo come una gallina. Mio papà mi aveva ripetuto: ”Se sei stanca vai a dormire e lascia là i compiti.” Io avevo ribattuto: ”Ma li devo fare, domani ho la verifica di francese e non posso prendere un brutto voto.” Lui si è alzato, si è leccato il labbro superiore ed è venuto verso di me con la testa rivolta verso il basso, con una faccia “seccata” dai miei continui ”no”. Quando è giunto alla scrivania, io piangevo, ma non volevo farmi vedere da lui. Mi ha detto: ”Alza la testa.” Io l’ho alzata, quasi intimorita che mi facesse qualcosa. ”Perché non vai in camera? Sei più tranquilla, no?” mi ha suggerito e io: ”Non è un fastidio la TV, è che sono stanca.” Silenzio. Un silenzio di tomba, come se tutto si fosse fermato. Poi, un’unica frase con un tono di voce molto deciso e freddo: ”Vai a letto se sei stanca.” E a seguire, una voce che non si sente tutti i giorni, con un suono che viene solo quando piangi: ”Non posso. Domani ho la verifica!”. “E allora vai su a studiare!”. Rassegnata, sono salita in camera, ma anche là non riuscivo a concentrarmi e continuavo a pensare al brutto voto dell’indomani. Ho urlato e forse ho detto cose che non avrei mai voluto dire: ”Che professoressa! Le interessa fare solo verifiche, non ha voglia di far niente!” E ho buttato sulla scrivania i libri che, andando a sbattere contro il legno, hanno fatto un rumore secco, sgradevole alle orecchie di chiunque. Non ho neanche fatto in tempo a sedermi e ad aprire di nuovo il libro che mio papà aveva già aperto la porta.

  24. Mi ha chiesto, ma questa volta con un tono più affettuoso e meno freddo: ”Che cosa c’è, Marta?” ed io ho risposto: ”C’è che domani ho la verifica di francese e io non so niente, non riesco a fare i compiti e sono stanca. E se non li faccio, domani mi prendo una crocetta e un brutto voto.” Lui mi ha risposto: Ma cosa ti interessa del brutto voto! Marta, non si deve studiare per paura, ma perché si vuole imparare! Tu non devi essere “schiava” del voto. Ti do’ un consiglio, ma ricordatelo per tutta la vita: se studi perché hai paura, o solo perché vuoi prendere un bel voto, quelle cose che impari dopo un mese te le dimentichi! Studia per imparare e vedrai che non te ne pentirai. Quindi, adesso, se ti senti di fare i compiti, li fai, altrimenti vai a letto, okay?” Io ho risposto: ”Va bene.” Lui è sceso in salotto. Ho messo via i libri ed sono andata a letto. Il discorso di papà mi HA CAMBIATO LA VITA! Ora sono più felice e per questo gli voglio dire:” GRAZIE, PAPA’!” Marta Xausa

  25. La mia prima volta in bici Guardando la cicatrice che ho sul braccio mi viene in mente la mia prima volta che provai ad andare in bicicletta. Avevo solo tre anni e mia mamma mi incitava, ma io continuavo a dirle che non ero capace. Alla fine, però, mi convinsi e mi buttai. Non andò come sognavo. Oltre a essere caduto ed a essermi sbucciato le ginocchia e un braccio, dovetti anche sopportare la sgridata di mia mamma perchè stavo per investire mio fratello più piccolo. Entrai in casa e mi preparai un bel panino con il formaggio. Poi, dopo una bella bibita, subito fuori a provare e riprovare a restare in equilibrio con la bici senza le rotelle. Non mi sarei mai dato per vinto! Insomma, dopo circa due orette ci riuscii!! Chiamai la mamma perché mi vedesse. "Bravo, ma devi imparare ad indossare il caschetto, altrimenti se cadi ti rompi la testa". "Sì, ok, non preoccuparti" le risposi. Ma non le diedi molto retta perchè nessuno mi poteva distrarre da quello che ero riuscito a fare. In poche parole avevo la testa tra le nuvole e i suoi consigli nemmeno li avevo sentiti. Passarono due giorni e miglioravo a vista d'occhio. La mamma, in quei giorni, mi diceva sempre di usare il caschetto, ma io non le davo mai retta.

  26. "Adesso provo a fare quel salto lì, credo di riuscirci, tutti mi diranno che sono bravo" pensai, dandomi molte arie. Il problema era che non avevo valutato una cosa: il salto era troppo grande per me che non ero molto alto. Dopo essere caduto ed essermi fatto un male insopportabile, soprattutto alla testa, sentii la mamma che era uscita per vedere dove mi trovavo. Quando mi adocchiò, mi portò subito in casa e lì mi rimproverò per non aver messo il casco. Mi medicò le ferite e raccolse la bici ormai inutilizzabile. Circa dopo tre settimane potei finalmente risalire nella mia bici, che mio papà nel frattempo aveva riparato, senza dimenticarmi però di utilizzare il caschetto di sicurezza. Non scorderò mai quella volta perché capii che non serve fare stupidaggini per vanità e che il caschetto ti può proteggere. Ronzani Kristian

  27. Sulla cima della Marmolada La mamma quella mattina mi aveva fatto alzare presto perchè dovevamo partire per la Marmolada. Io avevo 5 anni e quando mi alzavo a quell’ora ero sempre un po’ intontito (erano circa le 5:30). La mamma e il papà avevano preparato le cose da portar via la sera prima. Anch’io mi ero preparato il mio zainetto con dentro un maglione un impermeabile, nel caso piovesse, e un berrettone. Dopo essermi vestito e infilato gli scarponi, salii in macchina e mi addormentai. Al mio risveglio c’era mia cugina Federica che si stava infilando il giubbotto. Io la salutai e l’ abbracciai perché era un pezzo che non la vedevo. Cominciammo a parlare di come lei andava a scuola. Io andavo ancora all’asilo. Mi diceva che era bello, che aveva conosciuto molti nuovi compagni, alcuni simpatici altri proprio per niente. Io le dicevo che avevo voglia anch’io di andare a scuola, anche se all’asilo stavo bene, mi piaceva: eri libero, potevi dormire nel pomeriggio e giocavi sempre. Intanto, mentre parlavamo eravamo già saliti nella cabinovia che ci portò fino alla cima. In alcuni punti andava così in alto che mi venivano le vertigini. Appena arrivati in cima io, da “ gentiluomo “, presi una pallina di neve e gliela tirai in faccia. Lei si mise a gridare e iniziò a rincorrermi. Io, quando avevo un po’ di distacco, prendevo un’altra pallina di neve e gliela lanciavo addosso. Tutto questo andò avanti per una decina di minuti, finchè mi raggiunse e tentò di lanciarmi nella neve, ma io mi scansai e ci finì dentro lei. Tornati dai nostri genitori, prendemmo una montagna di parole. Mia cugina era bordeaux per la vergogna e perché aveva un caldo bestiale.

  28. Tutti insieme entrammo in baita per bere qualcosa di caldo. Ci sedemmo vicino alla finestra e vedemmo due uomini della forestale che lavoravano in maniche corte, fuori al freddo. Dopo aver finito di gustarmi la cioccolata, uscii e cominciai a gironzolare senza meta. Mio papà mi fotografava e io gli tiravo sassi. Lo colpii un po’ di volte e smise di fotografarmi. Poi andammo a vedere la Madonna. Era fatta completamente di granito ed era bellissima. Allora mio papà si mise a fare foto, ma non a me: alla Madonna! Ritornammo alla cabinovia e scendemmo. Ad un certo punto della discesa la cabina si fermò di colpo sopra un’enorme vallata, profonda più di 200 metri. Io continuavo a guardare giù, mentre mia cugina era stretta alle gambe di mio zio, dalle quali non si staccò finche non arrivammo in fondo. Salimmo in macchina e tornammo a casa. Nel tragitto io mi addormentai insieme a mia cugina. Al mio risveglio eravamo davanti a casa di mia zia. Ci fermammo lì per mangiare qualcosa. Alla fine mi buttai sul divano e dormii fino alla mattina. Il giorno dopo ero senza bicicletta e senza televisione per una settimana per aver fatto confusione con mia cugina! La morale è che non devo esagerare quando mi trovo con altre persone!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! GIANMARCO DALLE NOGARE

  29. NON L0 AVREI MAI PENSATO!! Eravamo in quinta elementare; ormai i gruppi si erano già fatti e non c’era bisogno di altre persone. Romina (sempre la prima a sapere le cose) ci aveva detto che dopo qualche giorno sarebbe dovuta arrivare Francesca. Io ed Angelica le abbiamo subito urlato: ”Cosaa!!??? Quella viene a scuola qui!??? Non le diventerò mai e poi mai amica.” Perché la odiavamo da morire; non c’era un motivo particolare: la odiavamo e basta! L’avevamo vista solamente a danza. Angelica invece l’aveva frequentata un anno più di me perché io mi ero stufata di andarci. Continuavamo a dire: ”Chissà che non arrivi. Speriamo che resti a Lusiana. Anche se la troveremo alle medie, non importa. Le elementari, almeno, ce le teniamo per noi.” La mattina seguente, ”il giorno X”, io, Angelica e Mattia arrivammo tutti a scuola contemporaneamente. Eravamo i primi. Passò un quarto d’ora e arrivò il primo pulmino e di lei non c’era traccia. Aspettammo fino all’ora di entrare. Io ed Angelica urlammo: ”Per fortuna non c’è!!” Salimmo in aula. Mi ero avvicinata ad Elisabetta e ci eravamo messe d’accordo di far finta di star male. Ci sedemmo in corridoio con Adriana, la nostra bidella, che ci aveva preparato un tè per farci star meglio. All’improvviso suonò il campanello ed ecco: era arrivata Francesca, che io ed Elisabetta nel frattempo avevamo chiamato “L’INTRUSA”!!! La bidella scese per andare ad aprire la porta e tutta la classe balzò fuori dall’aula per vedere chi fosse. Francesca stava salendo le scale. La sentivamo dal rumore delle scarpe. Era vicinissima. Si aprì la porta. La guardai molto bene, dalla testa ai piedi: aveva un giubbotto bianco, dei jeans e delle situo; la cartella era della Seven, rosa. Gli occhi marroni, i capelli bruni raccolti, magretta e bassa.

  30. Bisbigliai a Elisabetta:” Ehi, hai visto che magra?!!” Io e Angelica in classe cercavamo sempre di evitarla, al contrario di Elisabetta che voleva stare con lei; ma lei voleva stare solo con Romina. Arrivò l’ora della ricreazione. Giocavamo sempre a “miciamu”, un gioco che avevamo inventato noi: le femmine dovevano imprigionare i maschi e noi ci arrabbiavamo sempre perché continuavano a barare. Però quel giorno, anche se baravano, continuavamo a giocare lo stesso perché non avevamo voglia di stare con “L’INTRUSA”. Ma i maschi si stancarono prima. Ci ritirammo dietro l’albero, nell’angolo del muretto. Arrivarono “L’INTRUSA” e Romina. Romina mi presentò Francesca e io risposi schifata: ”Io sono Giada”. E subito lei mi prese per braccetto e iniziammo a parlare, a parlare, a parlare, e ancora a parlare. Trascorremmo le ultime due ore sempre parlando e mi chiese se il pomeriggio ci potevamo incontrare. Io volevo dirle di no; ma non so perché mi venne spontaneo dirle di sì. “Ma dopo le quattro, perché ho il doposcuola” aggiunsi. E da mezzogiorno alle quattro noi femmine continuammo a sparlare di lei. Il pomeriggio andai a chiamarla e mi fece vedere casa sua: la sua camera era azzurra, con due letti uniti, un armadio e la moquette verde; sulla scrivania spiccavano tante foto e gli smalti. Uscimmo a passeggiare e prendemmo un gelato. La invitai a casa mia per fargliela vedere. Poi giocammo a pallavolo e a calcio, insomma, facemmo di tutto. E adesso siamo LE MIGLIORI AMICHE. E pensare che prima ci ODIAVAMO ! Mi viene da RIDERE!!! GIADA BERTOLLO

  31. HO IMPARATO AD ANDARE IN TRATTORE ! Una bella mattina d’estate, quando ero nella malga di mio zio, mi sveglia perchè avevo sentito il rumore del trattore che mi dava fastidio. Quando scesi c’erano mia cugina Samantha e mia cugina Marika che stavano facendo colazione. Così mia cugina Samantha si alzò da tavola e la preparò anche a me . Uscii e indossai gli scarponi per andare a vedere che cosa stava succedendo. C’era mio zio che stava portando la balla di fieno nella mangiatoia, così le mucche, quando sarebbero tornate dal pascolo, avrebbero mangiato prima di essere munte. Quando scese giù dalla mangiatoia, che è su una collinetta davanti alla stalla, mio zio disse a mio cugino di portare il trattore dentro al recinto perché altrimenti le mucche lo avrebbero leccato tutto. Allora mio cugino lo mise in moto, ma con una manovra molto brusca distrusse il recinto dei silos dove si mette il cibo per le mucche. Mio zio gli disse di andare a prendere gli attrezzi per sistemare il danno e così chiese a me se volevo provare a guidarlo. Ma io non sapevo neppure come si accendeva un trattore! Mio zio però mi disse che mi avrebbe insegnato lui e così salii. Di fianco a me per fortuna c’era lui che mi spiegava come fare. Mi disse di ingranare la prima, ma io in quel momento non trovavo più la frizione per cambiare la marcia e così lo zio me la indicò. Io spinsi sul pedale e cambiai la marcia, ma tolsi il piede troppo in fretta e il trattore si spense all’improvviso. Io non sapevo come accenderlo, ma mio zio mi disse che si doveva tirare su una levetta di fianco al sedile, mettere il piede sulla frizione e, dopo aver girato le chiavi, tirare giù la levetta e mollare pian piano la frizione.

  32. Così ho girato la chiave, ho tirato giù la levetta e spinto in su pian paino la frizione. Mi disse di premere l’acceleratore ma io non sapevo quanto schiacciare con il piede. Quindi lo appoggiai appena appena ed il trattore partì di scatto; ma andò piano e riuscii così a fare un giretto sul piazzale davanti alle due stalle. Mio zio mi disse di andare sulla strada, che per fortuna non è asfaltata e che serve solo alla malga: quindi non passano macchine alla mattina. Dopo essermi instradato, mio zio mi disse di mettere la seconda ed io stranamente ci riuscii senza far spegnere il motore. Davanti a me c'era una curva ed io non sapevo che cosa fare. Mio zio mi disse di frenare solo con il freno e non con la frizione, perchè altrimenti mi sarei fermato. Dopo un po’ ero già arrivato all'incrocio che porta a Col Novanta e ad un’altra malga, dove aveva le vitelle mio zio. Mi disse di girarmi e di tornare indietro. Quindi mi suggerì di mettere la prima, di non accelerare e di girare il volante quasi al massimo. La manovra riuscì bene e io pensavo che forse avevo imparato a guidare il trattore. Ma non sapevo ancora fermarmi. Quando fummo arrivati al piazzale davanti alle stalle, mio cugino stava mettendo a posto il recinto. Mio zio mi disse di premere il freno e la frizione, così mi sarei fermato. Inserii anche la retromarcia, poi entrai nel recinto e parcheggiai il trattore vicino al fienile. Quando scesi dal trattore pensai : “Finalmente ho imparato!". Adesso posso aiutare mio zio e mio papà nel bosco con la legna o quando tagliano il fieno. Penso che sia una cosa divertente andare in trattore, ma nello stesso tempo anche utile. Mirco Crestani

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