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Monachesimo Italo Bizantino

Presentazione del lavoro della Scuola Media Statale A.Torre di Vallo della Lucania(SA) per il progetto Insediamenti Monastici e Conventuali per le province di Salerno e Avellino

ingenioloci
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Monachesimo Italo Bizantino

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Presentation Transcript


  1. Scuola Secondaria di Primo Grado “A. Torre” - Vallo della Lucania Il Monachesimo Italo-Bizantino nel Cilento Progetto realizzato nelle classi II B E II C ANNO SCOLASTICO 2009/2010 Prof. antonioruggiero

  2. Gli obiettivi del nostro lavoro La finalità del presente lavoro è stata dettata dalla necessità di suscitare in noi alunni il desiderio di conoscere e valorizzare, da un lato, le nostre risorse e di riscoprire, dall’altro, le nostre origini, troppo spesso dimenticate per l’influenza di certa cultura che tende ad omogeneizzare le differenze. Ritrovare le nostre origini significa, oggi, comprendere che la realtà in cui viviamo è il risultato dei contributi che, nel corso dei secoli, le popolazioni che si sono succedute in questi luoghi hanno dato in termini di lavoro, di sacrificio, di solidarietà, di conoscenze. Ci auguriamo che questo nostro piccolo contributo alla conoscenza del territorio stimoli, in coloro che ne hanno la responsabilità, il desiderio di operare sempre per il progresso morale e civile delle comunità.

  3. Il Monachesimo orientale IL monachesimo è una nuova forma di vita religiosa, che si manifesta nel mondo mediterraneo. Molti cristiani, infatti, dopo le persecuzioni cercarono nuove forme di vita che li avvicinassero Dio con atti di penitenza e con la preghiera. La solitudine, l’ascesi, la contemplazione sono le componenti di questo monachesimo, che nasce nel II secolo d.C. inEgitto, dove il deserto permetteva di ritirarsi in solitudine ((Anacoresi). Partendo dalla Bibbia come riferimento costante, i primi monaci intendevano realizzare un cristianesimo autentico sul modello della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme. Essi ritenevano che il monaco, ovvero colui che vive da solo o con la sua famiglia, dovesse abbandonare la schiavitù del male e del peccato, liberandosi dai beni terreni, per conquistare il bene supremo nell’imitazione del Cristo, che si ritirò nel deserto in preghiera e in digiuno, lottando contro il demonio. Cassiano infatti, scrive: “I nostri digiuni, le nostre veglie, la meditazione delle Scritture, la povertà e le privazioni sono gli strumenti per acquistare la perfezione”. Questi comportamenti non sono solo per il monaco, ma rappresentano un modello di vita per ogni cristiano. Il deserto monastico egiziano

  4. Anacoretismo e cenobitismo La prima forma di monachesimo fu l’Anacoretismo, ma, quando più persone si ritrovavano negli stessi luoghi e si riunivano in preghiera, iniziò la forma Cenobitica. Gli anacoreti si ritiravano talvolta in stanze (reclusi) o si isolavano su colonne (stiliti), oppure si spostavano in luoghi sempre più remoti e solitari (eremiti), portando ad estreme forme le penitenze e i digiuni. I cenobiti, invece, si ritrovavano a vivere insieme e ciò comportò l’adozione di regole uguali per tutti. S. Pacomiofu il primo a dettare la prima regola monastica che regolava la vita quotidiana, il lavoro, la preghiera, la disciplina. Chiuso da mura il monastero pacomiano riuniva una ventina di monaci sotto l’autorità di un Abate e comprendeva una cappella ed una serie di case. I diversi gruppi di un monastero si riunivano in preghiera tre volte al giorno: mattino, mezzogiorno e sera. Il monaco era vestito rozzamente: indossava di solito una tunica, un copricapo e una pelle di capra. Chi entrava in un monastero doveva rinunciare ai beni che possedeva, in segno di rinuncia ai beni terreni, ed obbedire in maniera assoluta all’Abate, quale segno di mortificazione della propria volontà. Un altro fondatore di cenobi fu S. Basilio che pose l’accento sulla vita della comunità, sul modello dei primi cristiani di Gerusalemme. Per S. Basilio “solo la vita cenobitica può consentire l’esercizio della carità”; egli concepisce la vita del monaco legata alla vita della comunità, perciò il monastero ha al suo interno le scuole, l’ospizio, l’orfanotrofio. S.AntonioAbate S.Pacomio S.Basilio S.Cassiano

  5. La Laura Accanto al cenobitismo di S. Pacomio e di S. Basilio, si sviluppa anche un’altra forma di vita monastica detta Laura: i monaci conducono vita solitaria per cinque giorni a settimana, ma si riuniscono il sabato e la domenica per le celebrazioni liturgiche in un centro di culto. Beato Angelico: La Tebaide

  6. I Monaci italo-bizantini nel Cilento A partire dal VI secolo anche il territorio cilentano fu interessato da costanti immigrazioni di monaci bizantini. Alcuni erano già giunti nel Cilento in pellegrinaggio presso la tomba di S. Matteo a Velia, ma per le difficoltà del viaggio di ritorno, non erano più rientrati nei luoghi di origine. Altri monaci erano giunti assieme a Narsete e Belisario con l’esercito bizantino come “cappellani militari” nella guerra contro gli Ostrogoti; altri provennero dalla penisola balcanica dopo le invasioni in quei territori degli Avari e degli Slavi. La spinta successiva fu data dall’Editto del 726 dell’Imperatore bizantino Leone III l’Isaurico, con il quale fu proibito il culto delle immagini sacre (lotta iconoclasta). Dalla Calabria, dove il potere imperiale era più diretto, molti monaci si diressero nel Cilento, in particolare nella regione allora chiamata Brycia, che faceva parte dei possedimenti longobardi, dove la popolazione, ammirata dalla loro santità, li accoglieva benevolmente, e i dominatori longobardi, che spesso affidavano loro terre da dissodare e mettere a coltura, li proteggevano. I monaci italo-bizantini, perciò, giocarono un ruolo fondamentale per la rinascita e lo sviluppo del territorio, in quanto possedevano conoscenze tecniche più avanzate. B R Y C I A B r y c i a Insediamenti monastici nel Cilento

  7. I luoghi di insediamento Resti di un mulino a S. Nazario La scelta dei luoghi dove edificare i monasteri veniva fatta tenendo presente un aspetto fondamentale che, anche in altre situazioni, è fondamentale: la presenza dell'acqua. Molti insediamenti si trovano in prossimità di corsi d'acqua aventi portate a livello torrentizio, ma anche portate maggiori. E' il caso ad esempio di San Nazario (S. Mauro La Bruca) o di San Giorgio ad Duoflumina nei pressi di Acquavella.‏ Anche nei pressi della Badia di S. Maria di Pactano scorre un corso d'acqua o meglio un piccolo torrente oggi noto come “Vallone dei Piani”. L’acqua rivestiva un ruolo importante non solo per la possibilità di irrigare i campi, ma soprattutto perché era una fonte di energia per far muovere le ruote dei molini o dei frantoi. La macinatura delle granaglie, ad esempio, era un lavoro pesante che i monaci rendevano più agevole con la costruzione di mulini ad acqua. Vallone dei Piani a Pattano

  8. Il lavoro dei monaci I monaci realizzavano opere di miglioramento fondiario coltivando appezzamenti acquisiti per lasciti e donazioni, mettevano a coltura terreni incolti mediante lo scasso del terreno e la frantumazione della roccia che poi recintavano (le chiuse); realizzavano, ove necessario, terrazzamenti per mettere a coltura anche terreni fortemente scoscesi, con la costruzione di muretti a secco; canalizzavano le acque necessarie per l'irrigazione dei fondi e dei terrazzamenti; introducevano nuove specie da coltivare; formavano la manodopera agricola specializzata; raccoglievano e lavoravano i prodotti. Conseguente perciò fu la nascita di borghi rurali formatisi nei pressi degli insediamenti monastici. Rofrano: S. Maria di Grottaferrata, cinta muraria Canalizzazione dell’acqua nei pressi della Abbazia di S. Nazario

  9. L’impronta dei monaci sul territorio Le azioni che i monaci promossero sul territorio sono ancora oggi leggibili non solo nel Cilento e nel Vallo di Diano, ma anche oltre i confini di questo territorio. All'indomani delle guerre greco-gotichei monasteri costituivano punti di riferimento importanti e ad essi si affidavano non solo le popolazioni, che sovente conducevano vite di stenti al limite della sopravvivenza, ma anche i signori locali. Alcuni insediamenti dei monaci italo-bizantini sono testimoniati nel Cilento già nell'Alto Medioevo; essi oltre all'attività religiosa conducevano anche pratiche agricole, nei primi tempi destinate essenzialmente alla sopravvivenza dei cenobi. Spesso i monasteri, a seguito di lasciti e donazioni, disponevano di immensi appezzamenti di terreno in genere ubicati nei pressi degli stessi monasteri. Le fonti storiche testimoniano che molti signori longobardi, proprietari terrieri, decisero di affidare ai monaci le loro importanti tenute per incrementarne la resa attraverso opere di miglioramento fondiario, che i monaci riuscivano ad eseguire grazie alle innovative tecniche agricole di cui possedevano i segreti. Molti, ad esempio, si interrogano sul fatto se l'olivicoltura sia stata o meno avviata dai monaci. E’ una domanda retorica, perché, anche se non fosse così, sicuramente essi sfruttarono la presenza degli olivi (prevalentemente selvatici), introducendo nuove varietà o attivando pratiche agricole che nella madrepatria già si realizzavano da secoli. Uliveto nei pressi della Badia di S. Maria di Pactano

  10. LA CAPPELLA DI S. MATTEO “AD DUO FLUMINA”

  11. La Cappella di San Matteo “ad duo flumina La cappella di san Matteo è preziosa per aver custodito il corpo dell' Evangelista e Apostolo Matteo. Anticamente fuori dall’abitato, ora è inserita nel perimetro urbano di Casalvelino Marina. La cappella misura m 8,25 di lunghezza e m 5,25 di Larghezza ed è illuminata da tre finestre. Sull'altare di stucco dal secolo XIX un quadro rappresenta 1'Apostolo ed Evangelista Matteo. Il ritrovamento da parte di un cittadino velino, Gavinio, del corpo di S. Matteo aveva portato molti fedeli, soprattutto monaci, a Velia, dove lo stesso Gavinio aveva fatto edificare una cappella. Con le invasioni del V – VI secolo la chiesetta era stata distrutta e del corpo di S. Matteo si era perso il ricordo. Solo nel X secolo, secondo la tradizione, sarebbe avvenuto miracolosamente il ritrovamento delle spoglie, nel luogo dove oggi sorge il piccolo tempio dedicato all’Apostolo ed Evangelista. S. Matteo Apostolo Quadro sovrastante l’altare della cappella

  12. Il ritrovamento del corpo di S. Matteo Il primo documento storico in cui si attesta il rinvenimento delle reliquie di san Matteo a Velia e poi la loro traslazione a Salerno è costituito dal Chronicon salernitanum, la cui redazione risale intorno al 978, pochi decenni posteriore alla traslazione a Salerno (6 maggio del 954) : " Al tempo di Gisulfo fu ritrovato nel territorio della Lucania il corpo sacratissimo del beato Apostolo Matteo e con i dovuti onori, per ordine di Gisulfo, fu portato a Salerno ". Il secondo documento, considerato autentico dai periti, è un codice della fine dell'XI secolo o dell'inizio del XII custodito nella Bibliotecadel Capitolo Cattedrale di Benevento, che conferma il Chronicon e aggiunge la data del rinvenimento e della traslazione delle reliquie del santo “Translatio sancti Matthei apostoli et evangeliste" "....Anno 954 ". Nell' anno 954, durante il principato di Salerno di Gisulfo I Pelagia, una vecchia donna, abitante in Lucania e dedita al servizio divino, ebbe in sogno la visione di un uomo venerabile, dell’Apostolo Matteo che le comandò di far ricercare dal figlio Atanasio, monaco, il sepolcro dove era stato un tempo sepolto il suo corpo. II Santo indicò a Pelagia con precisione il posto: i ruderi di un'antica chiesa distrutta dai barbari. Atanasio condusse le ricerche, ritrovò le reliquie del santo, ma spinto dalla cupidigia, tentò due volte di salpare dal porto lucano per trasferire lontano le reliquie, per trarne vantaggi. Però furiose tempeste impedirono ad Atanasio di lasciare il porto; egli comprese che altra era la volontà del santo e nascose le preziose reliquie in una chiesa accanto alla sua cella.

  13. La traslazione a Salerno delle spoglie di S. Matteo La notizia del rinvenimento giunse a conoscenza del Vescovo di Paestum, che, giunto presso la Chiesa lucana, intimò ad Atanasio la consegna delle reliquie, che da un festoso corteo furono traslate nella Chiesa di Paestum, dedicata a Santa Maria. Ma, quando la notizia giunse al principe di Salerno Gisulfo I, egli inviò aI Vescovo di Paestum l'abate Giovanni, con la richiesta dell’immediata traslazione delle reliquie a Salerno". Il giorno seguente si effettuò la traslazione delle reliquie, accolte in massa dal popolo di Salerno: tra i fedeli festanti il presule Bernardo portò sulle spalle il corpo santo fino alla Cattedrale della “Madre di Dio", nella quale I' Evangelista Matteo mostrò la presenza del suo corpo con miracoli".

  14. La tomba del Santo Nella Cappella vi è ancora I' arcosolio, ossia il sepolcro in cui era stato deposto il corpo del santo, a testimoniare la presenza di San Matteo nella nostra terra.

  15. L’Epigrafe sull’Arcosolio Epigrafe posta sul fronte dell'arcosolio e incisa su pietra di chiara origine sepolcrale. Nella traduzione del prof. Filippo Papa: “Il Santo Apostolo ed Evangelista Matteo mentre predicava in Etiopia, per ordine del re tiranno Irtaco, fu martirizzato e sepolto in una zona montuosa. Gavinio, cavaliere lucano, cittadino di Velia, prefetto generale della milizia dell' imperatore Valentiniano, dalla Bretagna ormai conquistata, trasferì il corpo del Santo Apostolo Matteo nell' anno del Signore 352. NelI'anno di Cristo Signore 412, la Lucania e le altre province invase dai barbari e completamente distrutte, con gli abitanti uccisi o messi in fuga, il corpo del Santo Apostolo rimase ignorato per 600 anni in questa terra di Casalicchio, fino a quando, nell'anno 1050 fu ritrovato in questo luogo tra rovine coperte di rovi, essendone stati informati in sogno dallo stesso Apostolo una donna Pelagia e suo figlio Atanasio. Da questo posto il Vescovo Giovanni (lo portò via ) e arricchì di così gran tesoro il tempio della sua Cattedrale di Capaccio. Il principe di Salerno Gisulfo, vincitore (Dei Saraceni ) fece trasportare le spoglie preziose, quasi dono del cielo,nella sua città. Piangiamo dunque insieme a Velia che ne fu privata e alla distrutta Capaccio, mentre Salerno felice esulta. O Viandante, apprendi da queste storie le vicende del passato e prosegui il tuo viaggio.

  16. I Monaci Italo-Bizantini ed il culto di S. Onofrio a Cannalonga L’attuale chiesa parrocchiale di Cannalonga dedicata a S. Maria Assunta

  17. IL CULTO DI S. ONOFRIO La venerazione di S. Onofrio a Cannalonga si perde nella notte dei tempi. Tuttavia l’attuale protettore è S. Toribio, il quale fu scelto in data ben precisa, il 1738, quando con una decisione che, secondo tradizione, avrebbe trovato unanimità nella popolazione, frutto evidentemente dell’imposizione della famiglia ducale dei Mogrovejo sulla cittadinanza, fu stabilito che il protettore di Cannalonga sarebbe stato il santo di Lima e non più s. Onofrio, del quale forse mancava una documentazione certa. Tale decisione è confermata da una lapide adiacente la cappella del santo nella Chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta. La venerazione del s. anacoreta è confermata dalla visita del Vicario de Pace, il 13 luglio del 1698, alle chiese di Cannalonga tra le quali la Cappella di Sant'Onofrio nell'abitato da restaurare.

  18. Testimonianze della presenza dei monaci italo-bizantini Strutture di un antico mulino/ frantoio sul fiume Mennonia Ma che cosa può significare la presenza di S. Onofrio a Cannalonga? Sicuramente è il segno tangibile della presenza dei monaci italo-bizantini sul territorio. Come, infatti, giustificare la venerazione per questo santo eremita, già re persiano, e perciò orientale, se non con l’importazione del suo culto da parte dei monaci? A testimonianza di ciò è anche il perdurare di toponimi che richiamano la presenza dei monaci: l’orto dei monaci (dove attualmente c’è Piazza del popolo), la notizia circa i due molini di s. Onofrio (che, secondo un documento riportato da P. Ebner, fruttavano ancora nel 1873 Lire 40) ed il frantoio di S. Onofrio (che rendeva circa lire 7), la presenza nel territorio comunale di una zona denominata appunto S. Onofrio a circa mille metri. Anche una via principale del paese, oggi denominata C.so Europa, fino a qualche tempo fa era chiamata Via S. Onofrio. Piazza del Popolo, Già Orto dei monaci

  19. Segni dei monaci sul territorio Terrazzamenti sul fiume Mennonia Dietro la chiesa parrocchiale, strutture murarie, in condizioni piuttosto precarie, si osservano sulla sponda opposta del fiume e fanno pensare ad attività connesse con le pratiche agrarie: sono riscontrabili una grotta (un deposito per la conservazione di derrate alimentari?), arcate da cui fuoriesce dell’acqua a livello del corso del fiume, ambienti su livelli diversi che rimandano ad una presenza stabile sui luoghi. Interessante, poi, è la sistemazione dei terreni che costeggiano il fiume: osservando attentamente tutta la zona alle spalle della chiesa, si possono notare opere di terrazzamento che degradano sul torrente da ambedue i lati con la presenza di secolari piante di olivo. Strutture murarie di un antico mulino

  20. Segni dei monaci sul territorio Strutture ad arco di un antico mulino Grotta prospiciente un antico mulino

  21. Segni dei monaci sul territorio ANTICO MULINO TERRAZZAMENTI

  22. S.Onofrio: notizie biografiche Secondo la tradizione, S. Onofrio era figlio del re persiano Teodoro, aveva rinunciato al trono e si era ritirato in un cenobio della Tebaide egiziana, conducendo una vita severa e rigorosa. Poiché desiderava una più completa solitudine, si era rifugiato nel deserto, non incontrando persona viva per circa 70 anni, durante i quali di Lui non si erano avute più notizie. Nel V secolo,il monaco Pafnunzio si inoltrò nel deserto egiziano, desideroso di conoscere gli anacoreti che vi vivevano e incontrò un uomo, ricoperto solo da lunghissimi barba e capelli e da qualche foglia lungo i fianchi ; l'aspetto dell'uomo spaventò Pafnunzio , ma I'uomo lo chiamò ed egli capì di aver trovato uno degli eremiti che cercava; era Onofrio, che sull'esempio di S. Giovanni Battista e del profeta Elia, aveva desiderato vivere nel deserto in ascetismo, in completa solitudine, riposando nelle caverne e nutrendosi di erbe (Infatti Onofrio in arabo è I'Abu Nufar, I'erbivoro, qualifica che gli si adatta perfettamente.) Onofrio raccontò a Pafnunzio che agli inizi della sua esperienza ascetica,un altro eremita lo aveva accompagnato presso un'oasi con palmizi, lasciandovelo da solo; una volta I'anno lo raggiungeva per fargli visita e confortarlo,ma durante una visita, si inchinò per salutarlo, si accasciò e morì; pieno di tristezza Onofrio lo seppellì in un luogo vicino al suo ritiro. Onofrio continuò a raccontare della vita solitaria e che nella sua vecchiaia un Angelo provvedeva quotidianamente al suo nutrimento, portandogli anche la s. Comunione la domenica. Pafnunzio, condotto da Onofrio all'oasi, assistette stupito al miracolo dell'Angelo. Dopo un intenso e profondo colloquio spirituale , Onofrio, rivolgendosi all'altro monaco, disse: "Dio ti ha inviato qui perché tu dia al mio corpo conveniente sepoltura, poiché sono giunto alla fine della mia vita terrena" e gli chiese che, ritornando in Egitto, raccontasse ciò di cui era stato testimone; poi, dopo aver benedetto Pafnunzio, si inginocchiò in preghiera e morì; Pafnuzio distese la sua tunica sul corpo senza vita e lo seppellì nell'anfratto di una roccia, in breve rovinata per una frana, che travolse anche la caverna, abitazione del Santo: era chiara la volontà di Dio: in quel posto nessun altro sarebbe vissuto come eremita. La 'Vita' scritta da Pafnunzio, è nota anche in diverse versioni orientali, greca,copta, armena, araba; essa ha la funzione di offrirci un elogio della vita' monastica cenobitica,e ancor più dello stato di vita più perfetto: la solitudine nel deserto. La 'Vita' greca di Pafnunzio si conclude con I'indicazione della data della morte di S.Onofrio, un 11 L'immagine di s. Onofrio anacoreta nudo, con poche foglie intorno ai fianchi, ricoperto da una lunghissima barba e dai lunghi capelli bianchi, è stata oggetto di iconografie nell'arte in tutti i secoli, arricchita di vari particolari, il perizoma di foglie, il cammello,il teschio, la croce, l'ostia con il calice, l'angelo.

  23. L’Abbazia di San Nazario Panorama di S. Nazario nel comune di S.Mauro La Bruca

  24. L’Abbazia di San Nazario era benedettina o basiliana? La Chiesa di San Nazario La maggior parte degli autori e degli storici del 1700-1800 riteneva che l’Abbazia di S. Nazario fosse di origine benedettina e che fosse stata fondata nel 1044 dall’Abate Richerio. L’Antonini fu il primo a sostenere che l’Abbazia era stata costruita in tempi anteriori al casale di S. Nazario, nel testo “La Lucania”, pubblicato a Napoli nel 1795. Appare credibile la tesi dell’Antonini, poiché non si potrebbe spiegare come potesse S. Nilo, monaco italo-greco, vestire l’abito monacale in un monastero Benedettino. La questione può essere sintetizzata con quanto scrive Don Pasquale Allegro (parroco per 45 anni anni del piccolo centro Cilentano e autore del testo “S. Nazario Brevi notizie sul Santo Martire sull’Abbazia e sul paese”). Don Pasquale Allegro fa pienamente sua la tesi dell’Antonini e conclude con chiarezza: “L’Abbazia di S. Nazario fu di origine Basiliana, risalente all’VIII o IX secolo. Nel X secolo era fiorente; nel 940 S. Nilo vi indossò l’abito sacro”. San Nazario: Centro storico

  25. La venerazione di San Nazario martire Non abbiamo alcun documento antico che ci faccia conoscere il nome del fondatore dell’Abbazia Basiliana né perché l’Abbazia fosse dedicata a S. Nazario Martire, il cui corpo era stato sepolto da S. Ambrogio nella Basilica degli Apostoli in Milano nel 395 d.C. Si era diffuso nell’Italia settentrionale, in Francia e in Germania ma anche nell’Italia meridionale e nella stessa Chiesa orientale il culto dei Santi Nazario, Gervaso, Protaso e Celso, ricordati il 14 ottobre di ogni anno. Perciò non possiamo meravigliarci che sia sorto nel Cilento un piccolo villaggio, S. Nazario, con un monastero dedicato al celebre Santo: probabilmente qualcuno dei monaci, o anche laico, che aveva conosciuto l’episodio del ritrovamento del corpo del Santo e che era bisognoso di vivere una vita di ascesi e preghiera, dette vita all’Abbazia che dedicò a S. Nazario. Statua di S. Nazario martire venerata nel paese omonimo

  26. I monaci nella valle del Lambro Grotte e laure erano disseminate nella valle del Lambro, lo stesso monte Bulgheria era chiamato Monte Cellerano per la presenza delle numerose Laure che occupavano le grotte naturali in cui vivevano i monaci; poco lontano dalla Chiesa parrocchiale vi è un territorio ancora chiamato: “laura dei monaci” ed il monte che sovrasta S. Nazario e S. Mauro La Bruca è denominato Monte dei Monaci. Da alcune fonti storiche sappiamo infatti che il monte Bulgheria fin dall’VIII secolo aveva accolto monaci italo-greci, costretti a fuggire dall’oriente a causa delle persecuzioni iconoclastiche di Leone III Isaurico e del figlio Costantino V Copronimo. E monasteri Basiliani erano: S. Maria in Centola, S. Cono di Camerota, S. Giovanni a Piro, S. Cecilia di Castinatelli. Il Monte Bulgheria, già detto Cellerano

  27. Architettura italo-bizantina delle chiese Che le abbazie di S. Nazario e S. Cecilia fossero in origine italo-bizantine, possiamo dedurlo dall’architettura delle chiese: tutte si presentano con la caratteristica di un’ abside esterna semicircolare. La cappella della Madonna di Santa Croce, nel centro storico di San Nazario, è la più antica e l’unica testimonianza delle Chiese absidate, secondo l’uso dei Basiliani. Anche la statua della Madonna conferma l’origine orientale ed è somigliante a tante altre sparse sul territorio Cilentano: Madonna del Granato, del Sacro monte, della Civitella, ecc. Madonna di S. Croce Cappella della Madonna di S. Croce Abside semicircolare della Cappella

  28. Le attività dei monaci a San Nazario Vasche per la raccolta dell’olio L’Abbazia nel secolo X era tanto conosciuta che i monaci del Mercurion, mandarono S. Nilo nell’Abbazia per vestire l’abito monastico. Il Cenobio era noto anche per un’industria sviluppata dai monaci, favorita dalla posizione del luogo e dagli allevamenti, per la presenza dell’acqua corrente del fiume Melpi e di pascoli adatti: la concia delle pelli di capre e pecore per ricavarne pergamene sulle quali potere scrivere, molto ricercate dai diversi monasteri. Sappiamo che S. Nilo nei giorni della sua permanenza nell’Abbazia di S. Nazario scrisse su pergamene quanto poteva essere utile per le celebrazioni liturgiche e le lasciò al monastero. Ancora ora esistono in un antico locale tre vasche per la concia delle pelli. All’esterno di un antico frantoio sono presenti vasche per la raccolta dell’olio ottenuto dalla spremitura delle olive. Antico frantoio Manufatti in pietra

  29. Le attività dei monaci a san Nazario Canale che portava l’acqua al mulino Ma le attività prevalenti dei cenobiti erano soprattutto quelle legate al lavoro dei campi. La coltivazione dell’olivo o del grano, necessari per il loro sostentamento, richiedeva ai monaci fatiche enormi, che essi cercavano di attenuare mediante la costruzione di frantoi o mulini mossi dall’acqua. Nei pressi della Badia scorre un torrente da cui essi prelevavano l’acqua, che, con opportuni lavori di canalizzazione, giungeva al mulino/frantoio facendo muovere le pesanti macine. E’ possibile osservare ancora le strutture murarie e le macine, di cui si servivano non solo i monaci, ma, molto probabilmente anche i poveri abitanti dei borghi vicini, visto che la loro missione tendeva ad alleviare le sofferenze della gente più sfortunata. Mulino “Monaco”

  30. San Nazario: la presenza dei monaci sul territorio

  31. NOVI VELIA: S. MARIA DEI GRECI

  32. NOVI VELIA: S. MARIA DEI GRECI A Novi, dove fortunatamente tutto pare essere rimasto incontaminato da un millennio, vi è ricordo di Greci e Longobardi e le strade sono ancora le "penninose", che vedremo descritte nel Tavolario cafaro del ‘600. Così, nel nome, la via principale e due diramazioni ricordano tuttora i primi religiosi bizantini che vi abitarono, elevandovi una chiesa alla loro patrona, la bruna Vergine Odigitria, nella dizione popolare poi S. Maria dei Greci, con attiguo un cenobio.

  33. La Chiesa di S. Maria dei Greci Lato sud-est Poiché tutto fa supporre che i monaci bizantini furono i primi a penetrare entro le antiche fortificazioni del colle, è da ritenersi più che fondata l'opinione che la chiesa di santa Maria dei Greci, dedicata, com’era costume di quei monaci, alla protettrice Vergine Hodigitria, sia stato il primo edificio in ordine di tempo elevato a Novi. Non abbiamo elementi per stabilire se alla fine del XIII e agli inizi del XIV secolo nella chiesa di santa Maria dei Greci si celebrasse ancora con rito orientale. L'inventario dei beni di proprietà della chiesa ci fornisce un quadro concreto delle condizioni economiche: “ex inventario S.M. de Grecis anno 1513: 26 terreni demaniali, tra cui il Jardino de' Greci, 11 "emphiteutici reddentes" e 21 da recuperare.

  34. Antica facciata: l’ingresso e l’oculo sono stati murati La Chiesa di S. Maria dei Greci Facciata ovest: oculo

  35. Dotazioni della Chiesa nel 1600 Nel corso del 1600 vennero soppresse le due parrocchie di Santa Maria dei Greci e di san Nicola e le rendite furono aggregate alla chiesa di Santa Maria dei Longobardi. Importante è il decreto di mons. Carafa, con dettagliate notizie su santa Maria dei Greci “sita nella stessa Terra di Novi, una volta parrocchia, ora unita a Santa Maria dei Longobardi, ha una scultura di marmo con I' immagine di S. Maria Vergine con Gesù Cristo di legno, una croce e due candelabri, vi si celebra tutte le domeniche e feste di precetto; sopra l’altare un crocifisso su tavola , unica navata soffitto con tavole, campana di 800 libbre. Nel corso degli anni la chiesa è stata adibita ad abitazione, per cui rimane molto poco dell’originale, riscontrabile soprattutto nei muri perimetrali, in qualche punto della pavimentazione e nella soffitta. S.Maria dei Greci: facciata ovest

  36. S. Maria dei Greci: particolari a livello del soffitto

  37. Monte Sacro di Novi Velia La chiesa del Sacro Monte di Novi La fondazione del santuario è molto probabilmente avvenuta dopo l’invasione da parte degli Arabi della Sicilia nel 952. San Fantino assieme ad altri monaci aveva raggiunto la zona del Golfo di Policastro, ma le scorrerie dei pirati saraceni lo avevano costretto ad inoltrarsi nell’interno del territorio. Qui, dove già esistevano cenobi italo-bizantini, questi poveri monaci si dispersero, occupando le cavità naturali. Sicuramente la vista del monte Gelbison, con la sua vegetazione lussureggiante, avrà attratto molti di essi, in quanto la natura del luogo assicurava la tranquillità necessaria alla loro vita di contemplazione e di preghiera. E, secondo la tradizione, in una grotta essi sistemarono l’Icona della Madonna Odigitria, costruendo poi attorno ad essa il loro eremo. Il ritrovamento di scheletri durante lavori di scavo fa pensare ad una residenza stabile, anche se in seguito all’occupazione del territorio da parte dei Normanni il santuario fu abbandonato, dopo avere, secondo la tradizione, nascosto l’icona della Madonna murando la grotta. Vista panoramica del Santuario

  38. Monte Sacro di Novi Velia Via lastricata di accesso al Santuario Che cosa fa pensare che il santuario sia stato di origine italo-bizantina? Sicuramente il fatto che molti pellegrini provengano dalle valli del Mercure, dell’Agri e del Tanagro e dall’entroterra del Golfo di Policastro, dove si erano già insediati gruppi di monaci; inoltre, il culto di S. Bartolomeo, a cui è dedicata una chiesa sul santuario (certamente S. Bartolomeo di Rossano, discepolo e compagno di S. Nilo e devotissimo della Madonna, per la quale aveva scritto numerosi inni), culto sostituito dopo lo scisma d’Oriente con quello di S Bartolomeo Apostolo; infine, la via principale di accesso al santuario, che nei secoli passati è stata dalla parte che guarda il monte Bulgheria, lungo la quale si svolgevano i riti penitenziali, come il bagno nel Fiume sacrato, in segno di purificazione spirituale. Monte Sacro: La Chiesa di S. Bartolomeo

  39. Pellare: La Cappella di S. Sofia Non si hanno, purtroppo, elementi materiali che possano testimoniare l’esistenza di questa Chiesa. Sappiamo solamente, da un documento datato 1693, che, prima di edificare nel 1608 l’attuale Chiesa di San Francesco annessa al convento omonimo, al suo posto c’era una cappella dedicata a S. Sofia. Il documento dice espressamente: “Prima di darsi ai frati in quel luogo vi era una Cappella, o piccola chiesa, quale si nominava S.Sofia...”. La chiesa, probabilmente, era annessa ad un cenobio italo-bizantino, visto che dallo stesso documento emerge che, poco distante dal Convento, esisteva ancora “la casa diruta di S.ta Sofia”, nel luogo che oggi è chiamato “La Chiusa”; più avanti si parla di un terreno confinante con “...l’orto di S. Sofia” e di una donazione fatta alla “Cappella di S. Sofia nella Chiesa di S. Francesco delle Pellere”. Sono tutte notizie che fanno ipotizzare anche per questo luogo la presenza di un gruppo di monaci italo-bizantini, tanto più che poco distante dal luogo scorreva, e scorre tuttora, un piccolo ruscello che viene ancora utilizzato per irrigare gli orti; inoltre, i terreni appaiono tutt’intorno terrazzati, cosa che rimanda agli interventi che i monaci orientali solevano effettuare nei luoghi dei loro insediamenti. Infine non va sottovalutata la presenza, all’interno della chiesa del Convento di S. Francesco, di statue di santi, come S. Sofia, S. Biagio, sicuramente di origine orientale.

  40. Altri insediamenti monastici nel Cilento La presenza dei monaci orientali nel nostro territorio è stata capillare, come dimostrano le numerose testimonianze riscontrabili. Purtroppo, l’incuria degli uomini, la necessità di avere una casa, l’egoismo di alcuni hanno fatto sì che molto andasse perduto e che dei monaci rimanesse solo il ricordo. Nondimeno è possibile vedere ancora ciò che resta di quel tempo passato, come a S. Barbara di Ceraso con i ruderi dell’antico convento, a Castinatelli di Futani con la restaurata chiesa di S. Cecilia, ad Acquavella con i resti di S. Giorgio ad Duoflumina e la chiesa di S.Maria ad Nives o S. Maria di Terricello, o immaginare quello che doveva essere il cenobio di S.Marina “de lu Grasso” nei pressi di Vallo della Lucania citato in tanti documenti. Il nostro auspicio è che si possa , a poco a poco, recuperare quello che è la memoria del nostro passato.

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