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Calendario delle lezioni

A. A. 2013-2014 SP 2014 Prof. ord. Uberto MOTTA Storia letteraria moderna: La letteratura dell’Italia Unita (1861-1968) martedí 17-19h, MIS 3026. Calendario delle lezioni. 1) 18 febbraio 2) 25 febbraio 3) 4 marzo 4) 11 marzo 5) 18 marzo 6) 25 marzo 7) 1° aprile

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Calendario delle lezioni

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Presentation Transcript


  1. A. A. 2013-2014SP 2014Prof. ord. Uberto MOTTAStoria letteraria moderna: La letteratura dell’Italia Unita (1861-1968)martedí 17-19h, MIS 3026

  2. Calendario delle lezioni 1) 18 febbraio 2) 25 febbraio 3) 4 marzo 4) 11 marzo 5) 18 marzo 6) 25 marzo 7) 1° aprile 8) 8 aprile 9) 15 aprile 22 aprile: vacanze di Pasqua 10) 29 aprile 11) 6 maggio 12) 13 maggio 13) 20 maggio 14) 27 maggio

  3. Bibliografia (1) 1. Manuale di riferimento G. Contini, La letteratura dell’Italia unita 1861-1968, Firenze, Sansoni, 1968 (e successive ristampe, fino a: Milano, BUR, 2012). 2. Letture domestiche (una, a scelta, delle opere seguenti) F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana; G. Verga, I Malavoglia  oppure  Mastro-don Gesualdo; G. D'Annunzio, Il Piacere; L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal  oppure  Uno, nessuno e centomila; I. Svevo,  La coscienza di Zeno.

  4. Bibliografia (2) 3. Ulteriore bibliografia G. Contini, La letteratura italiana. Otto-Novecento, Milano, Accademia, 1974. Letteratura italiana. Le opere, diretta da A. Asor Rosa, vol. 3 (Dall’Ottocento al Novecento) e 4/I-II (Il Novecento), Torino, Einaudi, 1995-1996. Testi nella storia, a cura di C. Segre e C. Martignoni, voll. 3 e 4, Milano, Bruno Mondadori, 1996. Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, vol. 4, Dall’unità d’Italia alla fine del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1996. Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. 8 (Tra l’Otto e il Novecento) e 9 (Il Novecento), Roma, Salerno, 1999-2000. Storia della letteratura italiana, 5, L’Ottocento, a cura di R. Bonavita, Bologna, Il Mulino, 2005. Storia della letteratura italiana, 6, Il Novecento, a cura di A. Casadei, Bologna, Il Mulino, 2005. Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto e G. Pedullà, vol. 3, Dal Romanticismo a oggi, Torino, Einaudi, 2012.

  5. 1861-1968 • l'età postunitaria (1861-1903), tra verismo e simbolismo, estetismo e decadentismo; • l'età ‘giolittiana’ o delle avanguardie primonovecentesche (1903-1918); • l'epoca tra le due guerre (1918-1945), con le diverse forme di 'rilettura' della tradizione coeve all'avvento della dittatura fascista; • l'età del secondo dopoguerra (1945-1968), tra nuovo realismo e nuova avanguardia.

  6. l'età postunitaria (1861-1903) • F. De Sanctis (n. 1817) 1870-71: Storia della letteratura italiana • G. Carducci (n. 1835) 1875-1898: Giambi ed epodi (1882), Rime nuove (1889), Odi barbare (1893), Rime e ritmi (1898) • G. Verga (n. 1840) 1880 Vita dei campi, 1881 I Malavoglia, 1883 Novelle rusticane, 1889 Mastro-don Gesualdo • A. Fogazzaro (n. 1842) 1896, Piccolo mondo antico • La Scapigliatura (1860-70) C. Dossi (1849), Vita di Alberto Pisani, 1870; G. Faldella (1846); V. Imbriani (1840) • G. Pascoli (n. 1855) 1891 prima edizione di Myricae, 1903 Canti di Castelvecchio • G. D’Annunzio (n. 1863) 1889-1896 i grandi romanzi, da Il Piacere a Le vergini delle rocce; 1903 Alcyone • I. Svevo (n. 1861) 1892-98 Una vita e Senilità • L. Pirandello (n. 1867)

  7. l'età giolittiana (1903-1918) Luigi Pirandello 1904 Il fu Mattia Pascal 1921 Sei personaggi in cerca d’autore 1922 Enrico IV 1926 Uno, nessuno e centomila Italo Svevo 1923 La coscienza di Zeno Benedetto Croce 1902 Estetica; 1909 Logica come scienza del concetto puro; 1913 La letteratura della nuova Italia • Crepuscolari Gozzano (La via del rifugio, 1907; I colloqui, 1911), Govoni (Le fiale e Armonia in grigio et silenzio, 1903), Moretti (Poesie scritte col lapis, 1911) • Futurismo 1912, Manifesto tecnico della letteratura futurista • Vociani (G. Papini, R. Serra, P. Jahier, S. Slataper) Clemente Rebora, Frammenti lirici (1913) Dino Campana, Canti orfici (1914) CamilloSbarbaro, Pianissimo (1914)

  8. Tra le due guerre (1918-1945) • “La Ronda” (1919-23) • “Solaria” (1926-36) Tre grandi poeti Saba (1883) Ungaretti (1888) Montale (1896) • Gadda, classe 1893 • Cardarelli (Poesie: 1936), Cecchi (Pesci rossi: 1920),Bacchelli (Il mulino del Po: 1938-40) • E. Vittorini (Conversazione in Sicilia: 1941) • Il Canzoniere (1921-1961) • L’Allegria (1931), Sentimento del tempo (1936) • Ossi di seppia (1925), Le occasioni (1939) • L’Adalgisa (1940-1944), La cognizione del dolore (1936-1963), Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1945-1957)

  9. Gli anni Trenta: la poesia (l’ermetismo) 1930, S. Quasimodo, Acque e terre 1932, S. Quasimodo, Oboe sommerso; A. Gatto, Isola; C. Betocchi, Realtà vince il sogno 1933, G. Ungaretti, Sentimento del Tempo; S. Solmi, Fine di stagione; L. De Libero, Solstizio La violetta notturna, a c. di R. Poggioli 1934, A. Bertolucci, Fuochi in novembre; V. Cardarelli, Giorni di piena N. Lisi, Paese dell’anima 1935, M. Luzi, La barca L. Fallacara, Confidenza 1936, L. Sinisgalli, 18 poesie; V. Cardarelli, Poesie; C. Pavese, Lavorare stanca 1937, A. Gatto, Morto ai paesi; L. De Libero, Proverbi 1938, S. Quasimodo, Poesie 1939, E. Montale, Occasioni; L. Sinisgalli, Campi Elisi; S. Penna, Poesie 1941, V. Sereni, Frontiera 1942, P. Bigongiari, La figlia di Babilonia

  10. Il secondo dopoguerra (1945-1968) LA POESIA/ I POETI L’ermetismo e la sua eredità Salvatore Quasimodo (1901) Leonardo Sinisgalli (1908) Alfonso Gatto (1909) Vittorio Sereni (1913) Mario Luzi (1914) LA PROSA/I NARRATORI Il neorealismo/Forme di realismo: tra Gli indifferenti del 1929 e Una vita violenta del 1959 Carlo Levi (1902) Mario Soldati (1906) Moravia (1907) Landolfi (1908) Vittorini (1908) Pavese (1908) Bilenchi (1909) Cassola (1917) Fenoglio (1922) Pasolini (1922) Calvino (1923)

  11. 1947-1963 La narrativa 1945 Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi 1947 Se questo è un uomo di Primo Levi 1947 Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino 1947 Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini 1948 Menzogna e sortilegio di Elsa Morante 1950 Le terre del Sacramento di Francesco Jovine 1952 I ventitre giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio 1954 Racconti romani di Moravia 1955 Ragazzi di vita di P.P. Pasolini 1958 Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa 1959 Il calzolaio di Vigevano di Lucio Mastronardi 1959 La Gilda del MacMahon di Giovanni Testori 1960 La ragazza di Bube di Carlo Cassola 1961 Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia 1962 Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani 1962 Memoriale di Paolo Volponi 1963 Libera nos a Malo di Luigi Meneghello

  12. Poesia 1945-1968: le voci ‘nuove’ Attilio Bertolucci (1911): La capanna indiana (1951) Giorgio Caproni (1912): Il passaggio d’Enea (1956), Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965) Franco Fortini (1917): Poesia e errore (1959), Una volta per sempre (1963) Andrea Zanzotto (1921): Dietro il paesaggio (1951), Vocativo (1957), La Beltà (1968) Giorgio Orelli (1921): L’ora del tempo (1962) P.P. Pasolini (1922): Le ceneri di Gramsci (1957) Giovanni Giudici (1924): La vita in versi (1965) Elio Pagliarani (1927): La ragazza Carla (1960) Amelia Rosselli (1930): Variazioni belliche (1964) E. Sanguineti (1930): Laborintus (1956)

  13. l'età postunitaria (1861-1903): la poesia • G. Carducci (n. 1835) 1875-1898: Giambi ed epodi (1882), Rime nuove (1889), Odi barbare (1893), Rime e ritmi (1898) • G. Pascoli (n. 1855) 1891 prima edizione di Myricae, 1903 Canti di Castelvecchio • G. D’Annunzio (n. 1863) 1889-1896 i grandi romanzi, da Il Piacere a Le vergini delle rocce; 1903 Alcyone

  14. Primamente intravidi il suo piè stretto scorrere su per gli aghi arsi dei pini ove estuava l'aere con grande tremito, quasi bianca vampa effusa. 4 Le cicale si tacquero. Più rochi si fecero i ruscelli. Copiosa la résina gemette giù pe' fusti. Riconobbi il colùbro dal sentore. 8 Nel bosco degli ulivi la raggiunsi. Scorsi l'ombre cerulee dei rami su la schiena falcata, e i capeifulvi nell'argento pallàdiotrasvolare 12 senza suono. Più lungi, nella stoppia, l'allodola balzò dal solco raso, la chiamò, la chiamò per nome in cielo. Allora anch'io per nome la chiamai. 16 Tra i leandri la vidi che si volse. Come in bronzea mèsse nel falasco entrò, che richiudeasi strepitoso. Più lungi, verso il lido, tra la paglia 20 marina il piede le si torse in fallo. Distesa cadde tra le sabbie e l'acque. Il ponente schiumò ne' suoi capegli. Immensa apparve, immensa nudità. 24

  15. Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna, e il colle sopra bianco di neve ride. 2 È l'ora soave che il sol morituro saluta le torri e 'l tempio, divo Petronio, tuo; 4 le torri i cui merli tant'ala di secolo lambe, e del solenne tempio la solitaria cima. 6 Il cielo in freddo fulgore adamàntino brilla; e l'aer come velo d'argento giace 8 su 'l fòro, lieve sfumando a torno le moli che levò cupe il braccio clipeato de gli avi. 10 Su gli alti fastigi s'indugia il sole guardando con un sorriso languido di vïola, 12 che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone par che risvegli l'anima de i secoli, 14 e un desio mesto pe 'l rigido aere sveglia di rossi maggi, di calde aulenti sere, 16 quando le donne gentili danzavano in piazza e co' i re vinti i consoli tornavano. 18 Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema un desiderio vano de la bellezza antica. 20

  16. Dov'era la luna? ché il cielo notava in un'alba di perla, ed ergersi il mandorlo e il melo parevano a meglio vederla. 4 Venivano soffi di lampi da un nero di nubi laggiù, veniva una voce dai campi: chiù... 8 Le stelle lucevano rare tra mezzo alla nebbia di latte: sentivo il cullare del mare, sentivo un frufru tra le fratte; 12 sentivo nel cuore un sussulto, com'eco d'un grido che fu. Sonava lontano il singulto: chiù... 16 Su tutte le lucide vette tremava un sospiro di vento; squassavano le cavallette finissimi sistri d'argento 20 (tintinni a invisibili porte che forse non s'aprono più?...); e c'era quel pianto di morte... chiù... 24

  17. l'età postunitaria (1861-1903) F. De Sanctis (n. 1817) Storia della letteratura italiana (1870-71) «La mia vita ha due pagine, una letteraria e l’altra politica, e non penso a lacerare nessuna delle due: sono due doveri che continuerò fino all’ultimo». «La questione critica fondamentale è questa: posti tali tempi, tali dottrine e tali passioni, in che modo questa materia è stata lavorata dal poeta? In che modo quella realtà egli l’ha fatta poesia?». «La parola è potentissima, quando viene dall’anima, e mette in moto tutte le facoltà dell’anima ne’ suoi lettori; ma quando il di dentro è vuoto, e la parola non esprime che se stessa, riesce insipida e noiosa». «La famiglia, la patria, la natura, l’amore sono per il poeta, com’era Dante, cose reali, che riempiono la vita e le dànno uno scopo. Per il Petrarca sono principalmente materia di rappresentazione: l’immagine per lui vale la cosa»; «Gli è che a quest’uomo [Petrarca] mancava quella fede seria e profonda nel proprio mondo, che fece di Caterina una santa e di Dante un poeta. [...] È in abbozzo l’immagine de’ secoli seguenti, di cui fu idolo».

  18. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana (Machiavelli) • «Talora ti pare un romano avvolto nel pallio in quella sua gravità, ma guardalo bene e ci troverai il borghese del Risorgimento [...]. Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla naturale»; • «Quando Machiavelli scrivea queste cose, l’Italia si trastullava ne’ romanzi e nelle novelle, con lo straniero a casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. [...] Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l’altro»; • «Siamo dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui, quando crolla alcuna parte dell’antico edificio. E gloria a lui, quando si fabbrica alcuna parte del nuovo. In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa, e annunziano l’entrata degl’italiani a Roma [20 settembre 1870]. Il potere temporale crolla. E si grida il viva all’unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli».

  19. Gli scrittori siciliani: da Verga a Camilleri

  20. l'età postunitaria (1861-1903) • G. Verga (n. 1840) 1880 Vita dei campi, 1881 I Malavoglia, 1883 Novelle rusticane, 1889 Mastro-don Gesualdo «Lo scrittore grande è il celebratore della plebe del suo paese, la campagna attorno a Catania. […] Verga ha tanti linguaggi quanti sono gli strati ch’egli indaga, e li gestisce in parallelo. Dalla ‘simpatia’ verso i cosiddetti umili del Verga, che personalmente era conservatore come i ‘galantuomini’ alla cui classe apparteneva, non è lecita alcuna illazione di carattere politico: il Verga rusticano è il frutto più meraviglioso dell’oggettività e della sperimentazione veristica. […] La narrazione si fa di suo, come è stata detta, epica e favolosa, autorevolmente remota nel referto d’un eterno presente» (Contini).

  21. G. Verga, I Malavoglia, Prefazione (1) Questoracconto è lo studio sincero e spassionatodel come probabilmentedevononascere e svilupparsinelle più umilicondizioni le prime irrequietudinipelbenessere; e qualeperturbazionedebbaarrecare in unafamigliuola, vissuta sino allorarelativamentefelice, la vagabramosìadell'ignoto, l'accorgersiche non si sta bene, o che si potrebbe star meglio. Il moventedell'attivitàumanacheproduce la fiumanadelprogresso è preso qui alle sue sorgenti, nelleproporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioniche la determinano in quelle basse sfere è menocomplicato, e potràquindiosservarsi con maggiorprecisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suodisegnosemplice. Man manochecotestaricercadelmeglio di cui l'uomo è travagliatocresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendentenelleclassisociali.

  22. G. Verga, I Malavoglia, Prefazione(2) Il cammino fatale, incessante, spessofaticoso e febbrilechesegue l'umanità per raggiungere la conquistadelprogresso, è grandiosonelsuorisultato, vistonell'insieme, da lontano. Nellalucegloriosache l'accompagna dileguansile irrequietudini, le avidità, l'egoismo, tutte le passioni, tutti i viziche si trasformano in virtù, tutte le debolezzecheaiutano l'immanelavoro, tutte le contraddizioni, dal cuiattritosviluppasi la lucedellaverità. Il risultatoumanitariocopre quanto c'è di meschinonegliinteressiparticolaricheloproducono; li giustifica quasi come mezzinecessari a stimolare l'attivitàdell'individuocooperanteinconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotestolavorìouniversale, dalla ricercadelbenesserematerialealle più elevateambizioni, è legittimato dal solo fattodella sua opportunità a raggiungereloscopodelmovimento incessante; e quando si conoscedovevadaquestaimmensacorrentedell'attivitàumana, non si domanda al certo come ci va. Solo l'osservatore, travoltoanch'esso dalla fiumana, guardandosiattorno, ha il diritto di interessarsi ai debolicherestano per via, ai fiacchiche si lascianosorpassaredall'onda per finire più presto, ai vintichelevano le bracciadisperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d'oggi, affrettatianch'essi, avidianch'essi d'arrivare, e chesarannosorpassatidomani.

  23. G. Verga, I Malavoglia, cap. I (1) Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n'erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all'opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev'essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all'Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull'acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ‘Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch'era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla. Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron ‘Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso – un pugno che sembrava fatto di legno di noce - «Per menare il remo bisogna che le cinque dita s'aiutino l'un l'altro». Diceva pure, «Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo».

  24. G. Verga, I Malavoglia, cap. I (2) E la famigliuola di padron ‘Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant'ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c'era dipinto sotto l'arco della pescheria della città; e così grande e grosso com'era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto «sòffiati il naso» tanto che s'era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto «pìgliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: ‘Ntoni, il maggiore, un bighellone di vent'anni, che si buscava tutt'ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l'equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant'Agata» perché stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui! ; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce. – Alla domenica, quando entravano in chiesa, l'uno dietro l'altro, pareva una processione. Padron ‘Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi, «perché il motto degli antichi mai mentì»: – «Senza pilota barca non cammina» – «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» – oppure – «Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» – «Contentati di quel che t'ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose.

  25. 1860-1903: la narrativa • la linea verista: G. Verga (1881, I Malavoglia), L. Capuana, F. De Roberto (I Viceré, 1894) • la linea scapigliata: Milano, post 1860 (Carlo Alberto Pisani Dossi, La vita di Alberto Pisani scritta da Carlo Dossi, 1870) • la linea antipositivista e spiritualista di Emilio De Marchi (Demetrio Pianelli, 1890) e soprattutto Antonio Fogazzaro (Piccolo mondo antico, 1895). • la linea degli scrittori per l’infanzia: Le avventure di Pinocchio di Collodi (1883); Cuoredi Edmondo De Amicis(1886) • Gabriele D’Annunzio: tra estetismo (Il piacere, 1889) e superomismo (Le Vergini delle Rocce, 1895)

  26. Carlo Dossi, Vita di Alberto Pisani, 1870 Cap. IV Degno di paracelso! È lo studio degli studi. Sente il tabacco, l'inchiostro e la citazione latina. È a tramontana, a terreno; è a volta da cui die' in fuori l'umidità. Tien le pareti, tutte a scaffali, con su spaventosi volumi in ramatina come il sospiro dei gatti. Ecco i dieci schienali arabescati di oro della rarìssimaòpera "de nùmeroatomorum"; presso, è la completa voluminosa sèrie delle gramàtiche (gramàtica, cioè a dire, il modo con cui si apprende a piedi il montare a cavallo); poi, raccolta delle più massiccie disputazioni... e quella sulla parola culex, e l'altra intorno alla lètterae considerata siccome còpula, e la arcifiera "sulla natura dell'aurèola del Monte Tàbor". Ed ecco, in un tratto dell'ùltimo palco, il famoso trattato "de nuce beneventana" quaranta tomi in­octavo, vestiti di pergamena, i quali, per il manco di uno, sèmbran dentiera priva di un dente occhiale; ecco - tagliando corto - una infinita turba di libraccioni, e nelle scansìe e fuori... spècula, theatra, convìa, thesàuri... di astrologìa, teologìa, etimologìa, ed altre scienze in ìa - tutta marròca.

  27. Carlo Dossi, Vita di Alberto Pisani, 1870 Cap. I Un dopo-pranzo di estate; il sole fà da trìpoli ancora alle gronde, e stelleggia i vetri a Praverde. Praverde è una brigata di case attorno di un campanile su 'n monticello isolato. Sotto di lui, la pianura. L'occhio, dall'alto, non si lascia mai di còrrere lungo le viti a festone ed i filari di gelsi dalle seguaci ombrettine; di attraversare i verdi pratelli solcati di rivoletti e i campi dalle ande quasi a riga e compasso; nè di girare e le cascine e i tuguri, così puliti, così di pace... in distanza, saltando e risaltando canali, siepi, sentieri. E, come si avesse innanzi una gran planimetrìa a colori. Ma, da lontano, un rintrono. Che vi ha? Niun contadino astròloga il cielo. Vi ha un temporale, ma è copia; quello dell'uomo; cattivo mille volte di più; mille di meno, maestoso.

  28. Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli, 1890 Verso mezzodí Cesarino Pianelli, cassiere aggiunto, vide entrare nell’ufficio il cassiere Martini piú pallido del solito, col viso stravolto, con un telegramma in mano. «Ebbene?» gli domandò, «che notizie mi dà?» «Bisogna che io parta immediatamente. È moribonda!» rispose il Martini, con un groppo alla gola che gli mozzò le parole. Povero diavolo! L’aveva sposata da poco piú di un anno e dopo un anno di tribolazioni, e quasi di agonia continua la poverina moriva consunta a Nervi, dove il medico l’aveva mandata a passare l’inverno. «Vada, vada, Martini, resto io. Si faccia coraggio, vedrà. La gioventú si aiuta sempre.» «Dovrei avvertire il commendatore, ma la corsa parte alle dodici e quarantacinque e non ho tempo. Gli scriverò appena potrò. Guardi, Pianelli, chiudo in questa cassa i valori principali e lascio a lei la chiave di quest’altra cassa. Vuole che gliene faccia la consegna? Saranno dieci o dodici mila lire in tutto.» «Se lei si fida di me, per conto mio non ho bisogno di consegna» soggiunse il cassiere aggiunto, tutto commosso e premuroso. «Mi fa una carità. Tenga conto del movimento di cassa e basta.» «Si fidi di me: vada, non perda tempo» disse premurosamente il Pianelli, confrontando il suo orologio con quello elettrico del cortile. «Se c’è bisogno, mi telegrafi.» «Si faccia animo; fin che c’è vita, c’è speranza.» «Grazie» balbettò il Martini. Strinse la mano al Pianelli, sforzandosi di ingoiare le sue lagrime e se ne andò. «Povero diavolo!» mormorò l’altro, tornando al suo posto. «Se c’è un galantuomo, gli càpitano tutte.»

  29. Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli, 1890 Verso mezzodí Cesarino Pianelli, cassiere aggiunto, vide entrare nell’ufficio il cassiere Martini piú pallido del solito, col viso stravolto, con un telegramma in mano. «Ebbene?» gli domandò, «che notizie mi dà?» «Bisogna che io parta immediatamente. È moribonda!» rispose il Martini, con un groppo alla gola che gli mozzò le parole. Povero diavolo! L’aveva sposata da poco piú di un anno e dopo un anno di tribolazioni, e quasi di agonia continua la poverina moriva consunta a Nervi, dove il medico l’aveva mandata a passare l’inverno. «Vada, vada, Martini, resto io. Si faccia coraggio, vedrà. La gioventú si aiuta sempre.» «Dovrei avvertire il commendatore, ma la corsa parte alle dodici e quarantacinque e non ho tempo. Gli scriverò appena potrò. Guardi, Pianelli, chiudo in questa cassa i valori principali e lascio a lei la chiave di quest’altra cassa. Vuole che gliene faccia la consegna? Saranno dieci o dodici mila lire in tutto.» «Se lei si fida di me, per conto mio non ho bisogno di consegna» soggiunse il cassiere aggiunto, tutto commosso e premuroso. «Mi fa una carità. Tenga conto del movimento di cassa e basta.» «Si fidi di me: vada, non perda tempo» disse premurosamente il Pianelli, confrontando il suo orologio con quello elettrico del cortile. «Se c’è bisogno, mi telegrafi.» «Si faccia animo; fin che c’è vita, c’è speranza.» «Grazie» balbettò il Martini. Strinse la mano al Pianelli, sforzandosi di ingoiare le sue lagrime e se ne andò. «Povero diavolo!» mormorò l’altro, tornando al suo posto. «Se c’è un galantuomo, gli càpitano tutte.»

  30. Antonio Fogazzaro, Piccolo mondo antico, 1895 Soffiava sul lago una breva fredda, infuriata di voler cacciar le nubi grigie, pesanti sui cocuzzoli scuri delle montagne. Infatti, quando i Pasotti, scendendo da Albogasio Superiore, arrivarono a Casarico, non pioveva ancora. Le onde stramazzavano tuonando sulla riva, sconquassavan le barche incatenate, mostravano qua e là, sino all'opposta sponda austera del Doi, un lingueggiar di spume bianche. Ma giù a ponente, in fondo al lago, si vedeva un chiaro, un principio di calma, una stanchezza della breva; e dietro al cupo monte di Caprino usciva il primo fumo di pioggia. Pasotti, in soprabito nero di cerimonia, col cappello a staio in testa e la grossa mazza di bambù in mano, camminava nervoso per la riva, guardava di qua, guardava di là, si fermava a picchiar forte la mazza a terra, chiamando quell'asino di barcaiuolo che non compariva. Il piccolo battello nero con i cuscini rossi, la tenda bianca e rossa, il sedile posticcio di parata piantato a traverso, i remi pronti e incrociati a poppa, si dibatteva, percosso dalle onde, fra due barconi carichi di carbone che oscillavano appena.

  31. Antonio Fogazzaro, Piccolo mondo antico, 1895 Soffiava sul lago una brevafredda, infuriata di voler cacciar le nubi grigie, pesanti sui cocuzzoli scuridelle montagne. Infatti, quando i Pasotti, scendendo da Albogasio Superiore, arrivarono a Casarico, non pioveva ancora. Le onde stramazzavano tuonando sulla riva, sconquassavan le barche incatenate, mostravano qua e là, sino all'opposta sponda austeradelDoi, un lingueggiar di spume bianche. Ma giù a ponente, in fondo al lago, si vedeva un chiaro, un principio di calma, una stanchezza dellabreva; e dietro al cupo monte di Caprino usciva il primo fumo di pioggia. Pasotti, in soprabito nero di cerimonia, col cappello a staio in testa e la grossa mazza di bambù in mano, camminava nervoso per la riva, guardava di qua, guardava di là, si fermava a picchiar forte la mazza a terra, chiamando quell'asino di barcaiuolo che non compariva. Il piccolo battello nero con i cuscini rossi, la tenda bianca e rossa, il sedile posticciodi parata piantato a traverso, i remi pronti e incrociati a poppa, si dibatteva, percosso dalle onde, fra due barconi carichidi carbone che oscillavano appena.

  32. Gabriele D’Annunzio, Il piacere, 1889 L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di Maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de' Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato. Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch'esalavan ne' vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta. Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d'istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d'inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d'Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d'argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.

  33. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.

  34. 1904-1926 La narrativa 1904, Il fu Mattia Pascal di L. Pirandello 1912, Il mio Carso di S. Slataper 1913, Canne al vento di G. Deledda; Un uomo finito di G. Papini [I vecchi e i giovani di L. Pirandello] 1919, Con me e con gli alpini di P. Jahier 1920, Pesci rossi di O. Cecchi 1921 Il podere di F. Tozzi 1923, La coscienza di Zenodi I. Svevo 1926, Uno, nessuno e centomila di L. Pirandello

  35. E. Montale, da Ossi di seppia, 1925 Non chiederci la parola che squadri da ogni latol'animo nostro informe, e a lettere di fuocolo dichiari e risplenda come un crocoperduto in mezzo a un polveroso prato. Ah l'uomo che se ne va sicuro,agli altri ed a se stesso amico,e l'ombra sua non cura che la canicolastampa sopra uno scalcinato muro!Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.Codesto solo oggi possiamo dirti,ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. (datato 10 luglio 1923)

  36. Il mondo di Ossi di seppia è un mondo negativo: secondo luoghi diventati proverbiali, il poeta si sofferma a descrivere il «male di vivere» che ha incontrato, e non è in grado di dire al suo lettore che «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». […] Non è remunerato da quel minimo di vitalità che inerisce anche all’operazione poetica, come appare luminosamente (e da lui pure asserito in modo esplicito) nel maggiore dei poeti «negativi», Giacomo Leopardi. Si aggiunga che la radicalità della poesia negativa è sottolineata dalla mancanza di qualsiasi ostentazione rivoluzionaria tanto nel linguaggio, di cui è facilmente dimostrabile la continuità con la tradizione fino al Pascoli e al Gozzano, quanto nella metrica, che, sia pure in forme non vincolate, libera frequentemente misure tradizionali e rime. (G. Contini)

  37. 1904-1926 La narrativa 1904, Il fu Mattia Pascal di L. Pirandello 1912, Il mio Carso di S. Slataper 1913, Canne al vento di G. Deledda; Un uomo finito di G. Papini [I vecchi e i giovani di L. Pirandello] 1919, Con me e con gli alpini di P. Jahier 1920, Pesci rossi di O. Cecchi 1921 Il podere di F. Tozzi 1923, La coscienza di Zenodi I. Svevo 1926, Uno, nessuno e centomila di L. Pirandello

  38. L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, 1904 Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostrava d'aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: Io mi chiamo Mattia Pascal. Grazie caro. Questo lo so. - E ti par poco? Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all'occorrenza: - Io mi chiamo Mattia Pascal. Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l'atroce cordoglio d'un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt'a un tratto che... sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de' vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente. Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l'origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli. E allora? Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo.

  39. L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 1926 – Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio. – Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino. Mia moglie sorrise e disse: – Credevo ti guardassi da che parte ti pende. Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda: – Mi pende? A me? Il naso? E mia moglie, placidamente: – Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra. Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo.

  40. Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Prefazione 1923 Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico­analisi s'intende, sa dove piazzare l'antipatia che il paziente mi dedica. Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico­analisi arriccerranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l'autobiografia fosse un buon preludio alla psico­analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie. Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch'io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch'egli ha qui accumulate!... DOTTOR S.

  41. Federigo Tozzi: una vita ‘esemplare’ • 1883, nasce a Siena, ultimo di otto figli e unico a sopravvivere, da una coppia di contadini trasferitisi in città. Il padre, violento volgare e autoritario, gestisce una trattoria; la madre, malata di epilessia, muore nel 1895 • Espulso dal Seminario Arcivescovile e dall’Istituto di Belle Arti per cattiva condotta, studia alle scuole tecniche • 1901, si iscrive al Partito socialista; inizia l’inquieta relazione con la contadina Isola, che nel 1902 lascia per Emma • 1904, una malattia infettiva agli occhi lo costringe a rimanere al buio per mesi • 1908, viene assunto dalle Ferrovie dello Stato, come impiegato alla stazione di Pontedera; muore il padre; sposa Emma e si stabilisce nel podere di famiglia dove si dedica alla lettura e alla scrittura • 1914, si trasferisce a Roma • 1917, pubblica la raccolta di prose Bestie • 1918, scrive di getto Il podere e tre croci • 1919, pubblica il romanzo Con gli occhi chiusi • 1920, muore a Roma di polmonite

  42. Federigo Tozzi, Il podere, 1921 Nel millenovecento, Remigio Selmi aveva venti anni; ed era aiuto applicato alla stazione di Campiglia. Da parecchio tempo stava in discordia con il padre e non sapeva che al suo piede bucato da una bulletta delle scarpe era ormai venuta anche la cancrena. Invece credeva che stesse meglio; senza sospettare che, se non gliene facevano sapere niente, volevano tenerlo lontano da casa più che fosse possibile. Ma una sera ricevette una cartolina dal chirurgo che lo curava; nella quale era scritto che la malattia non dava più da sperare. La fece leggere al capostazione; ed ebbe il permesso di partire subito, con il diretto che era per passare. Arrivò alla Casuccia la notte: tre miglia da Siena, fuor di Porta Romana; e, trovato l’uscio aperto, entrò nella camera del padre senza che prima nessuno lo vedesse. Giacomo era desto e appoggiato a quattro guanciali; mentre due delle assalariate, Gegia e Dinda, gli sostenevano le braccia lungo la coperta, attente a mettergliele in un altro modo quando non poteva stare più nella stessa positura. Sopra il canterano, una lucernina di ottone; con tutti e quattro i beccucci accesi. Remigio salì in ginocchio sul letto. Ma Giacomo, che aveva la testa ciondoloni sul petto e gli occhi chiusi, non se ne accorse né meno. Allora, gli chiese: «Non mi riconosci?»

  43. S. Freud, Al di là del principio di piacere, 1921 «Empedocle di Agrigento, nato all'incirca nel 495 a.C., si presenta come una figura fra le più eminenti e singolari della storia della civiltà greca. [...] Il nostro interesse si accentra su quella dottrina di Empedocle che si avvicina talmente alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un'unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica. [...] I due principi fondamentali di Empedocle – philìa (amore, amicizia) e neikos (discordia, odio) – sia per il nome che per la funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione».

  44. Grazia Deledda, Canne al vento, 1913 Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l'argine primitivo da lui stesso costruito un po' per volta a furia d'anni e di fatica, giúin fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall'alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca collina dei Colombi. Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d'acque nel crepuscolo, il poderetto che Efixconsiderava piúsuo che delle sue padrone: trent'anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d'India che lo chiudono dall'alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo. Il servo non guardava al di là del poderetto anche perché i terreni da una parte e dall'altra erano un tempo appartenuti alle sue padrone: perché ricordare il passato? Rimpianto inutile. Meglio pensare all'avvenire e sperare nell'aiuto di Dio.

  45. S. Slataper, Il mio Carso (1912) Vorrei dirvi: Sono nato in carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo. C'era un cane spelacchiato e rauco, due oche infanghite sotto il ventre, una zappa, una vanga, e dal mucchio di concio quasi senza strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro. Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri. D'inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la notte sentivo urlare i lupi. Mamma m'infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo. Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa. Poi son venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l'italiano, ho scelto gli amici fra i giovani piú colti; ma presto devo tornare in patria perché qui sto molto male. Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste subito che sono un povero italiano che cerca d'imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni. È meglio ch'io confessi d'esservi fratello, anche se talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta timido davanti alla vostra coltura e ai vostri ragionamenti. Io ho, forse, paura di voi. Le vostre obiezioni mi chiudono a poco a poco in gabbia, mentre v'ascolto disinteressato e contento, e non m'accorgo che voi state gustando la vostra intelligente bravura. E allora divento rosso e zitto, nell'angolo del tavolino; e penso alla consolazione dei grandi alberi aperti al vento.

  46. G. Papini, Un uomo finito (1913) Io non son mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza. Calde e bionde giornate di ebbrezza puerile; lunghe serenità dell'innocenza; sorprese della scoperta quotidiana dell'universo: che son mai? Non le conosco o non le rammento. L'ho sapute dai libri, dopo; le indovino, ora, nei ragazzi che vedo; l’ho sentite e provate per la .prima volta in me, passati i vent'anni, in qualche attimo felice di armistizio o di abbandono. Fanciullezza è amore, è letizia, è spensieratezza ed io mi vedo nel passato, sempre, separato, triste, meditante.  Fin da ragazzo mi son sentito tremendamente solo e diverso — né so il perchè. Forse perchè i miei eran poveri o perchè non ero nato come gli altri ? Non so : ricordo soltanto che una zia giovane mi dette il soprannome di vecchio a sei o sett'anni e che tutti i parenti l'accettarono. E difatti me ne stavo il più del tempo serio e accigliato: discorrevo pochissimo, anche cogli altri ragazzi ; i complimenti mi davan noia ; i gestri mi facevan dispetto ; e al chiasso sfrenato dei compagni dell'età più bella preferivo la solitudine dei cantucci più riparati della nostra casa piccina, povera e buia. Ero, insomma, quel che le signore col cappello chiamano un «bambino scontroso» e le donne in capelli «un rospo». Avevan ragione : dovevo essere, ed ero, tremendamente antipatico a tutti. E mi ricordo che sentivo benissimo intorno a me questa antipatia la quale mi faceva più timido, più malinconico, più imbronciato che mai.

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